Storie italiane

Il morbo è una guerra. Ma ad ucciderci sarà la burocrazia dei cavilli

Vite sconvolte: magistrati che temono il contagio, docenti alla prova del web, e un tranviere riceve colpi di tosse in faccia

9 Marzo 2020

“Ma ti rendi conto? Il ministro fa un provvedimento che apre ai processi via skype, e di notte, zac, una manina ci mette quello che vuole lei!”. È furibonda, la magistrata. Spiega come i tribunali siano gli ambienti più a rischio dopo gli ospedali. “Ci sono tutte le condizioni ideali del contagio. Noi lì, gli avvocati che vengono da posti diversi e frequentano ovviamente tutti i giorni clienti di ogni tipo, i parenti lo stesso, ancora più incontrollabili. Persone che fanno capannello. E le resse, uno attaccato all’altro, tutti che parlano animatamente. Per più processi al giorno. Alla fine il virus ti arriva addosso. Fra l’altro solo in Italia prevediamo le udienze aperte per certi processi, quelli civili, quelli amministrativi”. Ci sperava, la magistrata, nel decreto del ministro Bonafede. “Certo che servono udienze via skype. Qual è il problema, di fronte a quel che sta accadendo? Il guaio è che abbiamo una magistratura di formazione ottocentesca, giuristi imbalsamati che vivono di formalismo”.

E così la manina ha inserito un obbligo speciale. Sì ai processi via skype, ma i magistrati devono stare al loro posto, immobili al palazzo di giustizia. “Che è uno dei luoghi più infettati”, insiste lei. “Moriremo di burocrazia. Ma nel senso stretto del termine. Sai perché non potevano fare la prova del tampone? Perché la circolare ministeriale prescriveva che si potesse usare solo per le polmoniti di chi avesse avuto a che fare con la Cina. Non per le polmoniti sospette”.

Angosce e ribellioni di un’epoca mai immaginata e che sta cambiando le nostre abitudini in poche settimane. Dice che sembra di essere in guerra. Ma in guerra le persone diventano solidali tra loro. Per questo se ne esce migliori. Qui diffidano una dell’altra. Per nulla si guardano in cagnesco. Non si abbracciano e baciano più, anche se era ormai moda farlo dopo essersi conosciuti da due ore. Ho visto amici semisecolari non darsi la mano; o due persone presentate tra loro da una terza con la paura di dirsi “piacere”, la distanza prudente dell’uno finché l’altro lo terrorizza con la mano (l’arma chimica!) protesa verso di lui come da antica educazione.

Difficile raccontare le storie personali quando finisci in un fascio immenso di storie collettive, l’incertezza, la paura, l’odore forte dell’alcol che disinfetta le scrivanie di dipartimenti deserti.

Però vedi intorno a te persone impegnatissime ad assicurare la regolarità dell’anno scolastico, o accademico, che rischia di saltare. Angela, Gabriele, Ferruccio, Giovanni, Francesca. Altri. Uniti dall’idea di recuperare un giorno le lezioni. Di sabato, la sera, in luglio, in agosto, perché un Paese regge se tiene la sanità ma anche la scuola; neanche le guerre fanno chiudere le aule. Docenti che si danno consigli l’un l’altro su come fare le lezioni in remoto, altro che slide su un sito. Lezioni vere, interattive. Molti quasi digiuni di tecnologia ma con la voglia di non arretrare, di imparare in pochi giorni. “Guarda, se ce l’ho fatta io…”, per dire possiamo farcela, anche se questa peste che è una semplice influenza dovesse andare avanti per tutta la primavera.

È questo groviglio di paure e di generosità che sta riscrivendo il Paese, una sfida da vincere che a Natale, quando si brindava, nemmeno potevamo concepire. Chissà che davvero non ne usciremo migliori, più consapevoli delle nostre fragilità. Mi ha detto un collega: ho dovuto annullare tutti gli appuntamenti pubblici, tutti gli incontri, non pensavo che potesse esserci tanto tempo per leggere, scrivere, studiare. Come dire: non pensavo che potesse esserci tanto tempo per fare bene il nostro lavoro.

L’altra mattina sul tram 24 che porta al Vigentino, periferia sud di Milano, vuoto come tutti i mezzi pubblici, ho assistito al cambio del conducente. È sceso uno con la coda di cavallo, è salito un giovane riccio, la barba leggera, l’accento napoletano. Subito si è fatta avanti verso di lui una signora un po’ anziana, gli ha tossito preliminarmente in faccia poi gli ha chiesto un’informazione. L’ho squadrato. Prima la paura, la tentazione di gettarsi nel gabbiotto per sottrarsi alla possibile untrice. Mezzo passo indietro. Poi l’appello a se stesso, “restiamo umani”. Fermo davanti a lei, guardandola in faccia e spiegandole gentilmente dove scendere. Ho pensato che nel clima montante potesse essere la piccola parabola del “tranviere ignoto”. Un simbolo, come i fiori che sbocciano inconsapevoli o gli ultimi bambini con i coriandoli in mano. E ve l’ho raccontata.

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