Bohemian rhapsody

Freddie Mercury è ancora vincente ma insostituibile: meglio del ‘pupazzo Lambert’ sarebbe un ologramma

Dopo il film campione d’incassi i Queen ritornano sul palco ma Adam Lambert fa la figura dell’avventizio ingaggiato a cottimo per un sacrilegio

31 Dicembre 2018

Questo pezzo di Stefano Mannucci è stato pubblicato su Il Fatto Quotidiano il giorno 31 dicembre 2018. Lo riproponiamo dopo il grande successo del film  Bohemian Rhapsody ai Golden Globes.

Avevano venti minuti per prendersi il mondo, e ci riuscirono. Era il pomeriggio del 13 luglio 1985 quando venne il turno dei Queen al Live Aid, la più memorabile parata di stelle del rock e del pop, convocate da Bob Geldof per il benefit contro la carestia in Etiopia. Ero sotto il palco: Freddie sedette al piano per l’accenno di Bohemian Rhapsody. Dalla mia postazione protetta, mi spostai d’impulso per raggiungere la curva opposta del vecchio, glorioso stadio di Wembley. Volevo capire se l’onda d’energia della band potesse arrivare intatta a cento metri di distanza. Era così. Settantaduemila spettatori pronti ad alzare le braccia con pavloviana sincronia, le mani battute al ritmo di Radio Gaga. Se Freddie avesse chiesto loro di smontare le tribune, l’avrebbero fatto. Se avesse ordinato a due miliardi di persone ipnotizzate dalla diretta tv intercontinentale di dare l’assalto al Palazzo, avrebbero eseguito il comando.

Mercury era un sovrano planetario, in quel momento. Il suo era un carisma non esattamente riconducibile al potere del rock. I Queen erano grandiosi, ma Springsteen o i Led Zeppelin, in concerto, avevano uno sprint irresistibile. No, la questione è più articolata. Freddie Mercury è un’icona senza tempo perché il suo non è un codice ribellista, iconoclasta, pseudo-demoniaco come quello dei primi Stones o come il punk dei Sex Pistols. Freddie era esplosivo ma innocuo: un fuoco d’artificio.

Non lo percepivano come una minaccia della contro-cultura, ma come un’animazione in 3d. La sua spregiudicatezza sessuale era ostentata, giocosamente macchiettistica, e nessun uomo etero si sentiva insidiato nell’inconscio. I bambini vedevano in lui un eroe da fumetto, gli adulti ne adoravano l’attitudine kitsch così come l’inarrivabile tecnica vocale. Era un istrione in scena, un individuo gentile dietro le quinte. Quello stesso giorno del Live Aid lo vidi consolare il disorientato Bono, che era stato appena cazziato dagli altri U2 per aver perso tempo prezioso nello show tuffandosi davanti alle transenne per abbracciare una fan. “Hai fatto una cosa memorabile”, disse Freddie al collega dublinese.

Oggi, più di un quarto di secolo dopo la scomparsa, Mercury è di nuovo qui. Certo, c’è l’effetto nostalgia di chi negli anni Ottanta era adolescente con il suo poster in camera, ma anche la certezza che una star galattica così non sia riproducibile. E i primi a rendersene conto sono stati proprio i Queen superstiti: grottesca è la loro pretesa di andare in tour con dei cantanti che soccombono nel confronto con Freddie. Qualcuno dei candidabili, fiutando la malagrana, aveva rifiutato al volo. Subito dopo il maestoso tributo live in morte di Mercury, di nuovo a Wembley, si era fatto il nome di George Michael. Poi Robbie Williams. Stando a quel che ci racconta toccò pure a Zucchero. “Ci pensai su per una notte dopo aver cantato con i Queen in Sudafrica in omaggio a Mandela, poi ringraziai e dissi no”, sostiene Sugar. Un paio di vocalist ci sono cascati: dapprima Paul Rodgers già in disarmo e ora il giovane Adam Lambert. Di lui dice May: “Penso abbia un dono di Dio. Non tenta di emulare Freddie, che l’avrebbe amato e odiato”. Sì, ok, Lambert è un bravo pupazzo, un avventizio ingaggiato a cottimo per mascherare un’operazione a forte sospetto di sacrilegio. Più rispettoso sarebbe stato proiettare l’ologramma di Mercury.

E anche il film Bohemian Rhapsody, di cui i Queen sono stati produttori, non può essere altro che una celebrazionedi Freddie. Anni per revisionare la sceneggiatura, un epico scontro con Sacha Baron Cohen che era stato scelto per interpretare Mercury prima di Rami Malek, una costante limatura alla trama perché i tre della band non ne uscissero come meri comprimari. Tutto inutile. Freddie è il Re-Regina, condannato all’immortalità, all’eterna giovinezza, a incarnare un gaudioso, portentoso vitalismo. È il destino dei divi. In nome di ciascuno.

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