Dopo l’industria

La produttività è frenata dalle riforme del lavoro

Dagli anni 90 la politica ha spinto le imprese dei servizi a risparmiare usando precari anziché fare il salto tecnologico

Di Pasquale Tridico
6 Dicembre 2017

Tutti si lamentano del calo della produttività in Italia. Se osserviamo le riforme implementate negli ultimi due decenni nel mercato del lavoro, fino all’abolizione di fatto dell’articolo 18 con il Jobs Act, che hanno tutte aumentato la flessibilità del lavoro, si è spinti a pensare che il problema sia solo di incentivi: come se fosse una questione di “poca voglia di lavorare” o “colpa della crisi”. Ma pochi si interrogano sulle cause profonde del calo della produttività: abbiamo un settore dei servizi poco innovativo e riforme del lavoro che hanno scoraggiato gli imprenditori a scommettere sulla tecnologia, incentivando ad approfittare del costo del lavoro basso e dei precari.

Negli ultimi quattro decenni, molte economie avanzate, inclusa la nostra, hanno subito cambiamenti significativi nelle loro strutture produttive con una transizione verso il settore dei servizi e il calo della manifattura. Il cambiamento può costituire una minaccia per la dinamica della produttività del lavoro soprattutto se i nuovi lavori che emergono nei servizi non sono abbastanza specializzati, non orientati all’innovazione e al progresso tecnico, ma intrappolati in settori terziari poco specializzati, come il turismo, il settore alimentare, l’accoglienza (hotel e ristoranti), i servizi alla persona (badanti e simili), logistica a basso contenuto tecnologico. Questa idea risale almeno a economisti come Baumol e Kaldor (1966-67). Alcuni economisti schumpeteriani hanno mostrato che i Paesi mediterranei (Spagna, Portogallo, Grecia e Italia) sono orientati verso un’occupazione poco qualificata nella produzione di servizi a bassa tecnologia. Ciò influenza negativamente la loro dinamica di produttività.

Queste argomentazioni sono molto condivisibili anche perché ben documentate empiricamente. Ma la produttività del lavoro non ristagna solo a causa dello scarso livello di capitale umano e della specializzazione in settori a bassa tecnologia. Ciò che conta molto è 1) il ruolo degli investimenti a più alta intensità di capitale rispetto agli investimenti a minore intensità di capitale 2) l’aumento dei salari nei settori ad alta intensità di capitale (che a loro volta implicano una maggiore domanda e un aumento della produttività del lavoro). Nel caso dell’Italia, c’è stato un aumento dei livelli di capitale umano negli ultimi tre decenni non stato ben assorbito da un tessuto produttivo poco specializzato e orientato a investimenti a basso contenuto di capitale.

Il processo di de-industrializzazione che ha attraversato l’Italia dagli anni Novanta ha avuto un impatto negativo sulla dinamica di produttività proprio per l’assenza di questi due fattori e per una transizione prevalentemente verso settori nei servizi a basso contenuto tecnologico. Questo processo di de-industrializzazione è stato accompagnato in vari Paesi europei e soprattutto in Italia da una serie di riforme del mercato del lavoro tese ad aumentare la flessibilità del lavoro, diminuirne la protezione e aumentare il lavoro temporaneo e precario. Si è avuta pertanto una compressione dei salari e del lavoro che ha contribuito alla riduzione della quota lavoro sul Pil.

Paolo Sylos Labini ha dimostrato che le strategie di investimento sono anche orientate dai costi del lavoro. Se un Paese pratica una politica di bassi salari, gli investimenti saranno prevalentemente ad alta intensità di lavoro e quindi a bassa produttività del lavoro, mentre se i salari saranno alti, gli investimenti da parte delle imprese, proprio per risparmiare sui costi, saranno prevalentemente ad alto contenuto di capitale e quindi soggetti a notevoli guadagni di produttività. Le riforme del mercato del lavoro in Italia, dal “pacchetto Treu” del 1997 al Jobs Act del 2015, orientate verso la flessibilità in entrata e in uscita, hanno contribuito a innescare una dinamica negativa della produttività del lavoro.

Oggi l’occupazione nel settore dei servizi nei Paesi avanzati, compresa l’Italia, è circa il 70 per cento del totale. Si tratta quindi della maggior parte dei lavoratori. Nel nostro Paese una grande quota di essi lavorano in settori poco specializzati e portano a casa bassi salari. La deindustrializzazione in Italia è stata seguita da una transizione orientata verso servizi a scarso contenuto tecnologico (come il turismo, il settore agroalimentare, hotel e ristoranti, servizi agli anziani, logistica poco specializzata).

Ci stiamo pericolosamente stabilendo su un modello di crescita a bassi consumi e quindi a bassa crescita della produttività, perché la produttività è in larga parte trainata da produzione in larga scala, resa possibile da consumi di massa e sostenuti. Gli imprenditori che devono fronteggiare una grossa domanda fanno uso di macchinari e di capitale poter produrre di più. Ma se la domanda ristagna, agli imprenditori basta fare competizione attraverso la leva dei salari per rimanere competitivi, almeno per un po’. E le politiche del lavoro degli ultimi anni favoriscono l’azionamento di tale leva.

La rivoluzione tecnologica-digitale che molti Paesi avanzati si apprestano ad affrontare, e di cui anche l’Italia vuole essere partecipe, dovrebbe basarsi su altre fondamenta, più solide, soprattutto nel mercato del lavoro.

 

 

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