L'intervista

Violenza contro le donne, il bestiario in Tribunale: “La spio perché mi tradisce”, “è solo un ceffone”, “non sa cucinare”

Carnefici e vittime - Il giudice Valerio de Gioia, 15 anni nella sezione specializzata sui soggetti vulnerabili: “Chi abusa della moglie dice sempre: ‘Succede in tutte le famiglie’”

29 Novembre 2023

“Certo che ho preteso un rapporto sessuale, è mia moglie”.
“Le ho dato solo un ceffone, non è mica violenza”.
“Sì mi ha picchiata, ma aveva perso il lavoro”.
“Sì mi sono rotta il naso, ma è stato un incidente, non è colpa sua”.
“Papà è violento con la mamma, le mette le mani addosso”.

Il bestiario della violenza di genere sembra un catalogo dell’assurdo. Il magistrato Valerio de Gioia lo snocciola conservando ancora un certo stupore: eppure ascolta storie simili da una vita. Ora è giudice della Corte d’appello di Roma. Per 15 anni, dal 2008 al 2023, ha lavorato al Tribunale capitolino nella sezione specializzata sui soggetti vulnerabili: maltrattamenti, stalking, violenze (i reati del Codice rosso). “Ho affrontato almeno 50 casi all’anno e il reato più diffuso sono i maltrattamenti in famiglia, al secondo posto gli atti persecutori”.

Dottor de Gioia, gli uomini violenti come giustificano lo stalking e gli atti persecutori?

Scaricano la colpa sulla donna. Credono che la loro reazione sia legittima e si assolvono così: “Mi rispondeva male quindi le ho dato uno schiaffo, è lei che mi provoca”. Oppure: “La spiavo e la seguivo perché lei mi tradiva”.

Invece per i maltrattamenti in famiglia?

Il lavoro dell’uomo, agli occhi di certe donne, è la giustificazione per tutto e la redenzione da ogni peccato. “Porta i soldi a casa, è stressato e va capito”. L’uomo violento invece parla della donna come una colf. “Lei non sa cucinare e non mi ha fatto trovare il piatto pronto”. Più spesso dicono: “Ho urlato e le ho messo le mani addosso, sì, come in tutte le famiglie”. Ecco la frase che mi dicono sempre. Credono di essere nel giusto.

L’imputato violento prova vergogna per le sue azioni?

Solo in un caso, quando assume stupefacenti. Se l’uomo supera la dipendenza, poi si vergogna di ciò che ha fatto. Per il resto, nessun pudore. Infatti è quasi sempre in tribunale pur non essendo obbligato dalla legge. Di solito, per altri reati, l’imputato non viene in udienza salvo il caso dei processi per direttissima. Colleghi francesi e tedeschi sono rimasti sconvolti e anche in Usa la presenza è obbligatoria. In Italia invece no: ma solo per i reati di violenza di genere l’imputato assiste all’udienza nel 90% dei casi.

Perché vuole essere in tribunale?

La sua presenza turba la vittima e la mette a disagio, lei sovente smette di parlare e nega tutto. Cerchiamo di tranquillizzarla con il paravento per non farle vedere l’aguzzino, ma non serve a nulla. Con la presenza in aula, l’uomo vuol far pesare la sua autorità sulla vittima e sui testimoni. È un’intimidazione, un gesto che la dice lunga sul profilo culturale dell’autore di violenze. Mostra l’atteggiamento di chi vuole controllare il processo, sfida il giudice e il clima in aula si fa pesante.

In che senso “prova a controllare il processo”?

Interrompe le deposizioni della vittima o dei testimoni, negando le accuse e violando le regole processuali. Per altri reati non avviene quasi mai. Invece nei casi di violenza di genere spesso ho dovuto allontanare l’imputato. Lui non se ne rende conto, ma così offre la conferma della sua indole violenta e si danneggia da solo.

E quando è l’imputato a deporre, come si comporta?

Nega sempre tutto. Perfino quando diversi testimoni, incluse le forze dell’ordine, concordano nell’accusa. Della serie: “I carabinieri mentono, mai minacciata di morte mia moglie di fronte agli agenti”. Invece per altri reati, ad esempio il furto, di fronte a prove schiaccianti l’imputato ammette la colpa.

Negare sempre e comunque.

Quasi sempre. Altre volte ammettono la violenza, ma credono sia normale. In tribunale devo spiegare loro che per fare l’amore con la moglie serve sempre il consenso. L’imputato mi guarda e allora io capisco: l’uomo medio è convinto di poter pretendere rapporti con la coniuge, non sa neppure che è violenza. La pacca sul sedere alla giornalista è vista come una goliardata: ma il magistrato sa che è violenza, è un reato, perché così è percepito dalla vittima. Perfino i bambini dimostrano maggiore consapevolezza e sanno distinguere le violenze. Quando i figli sono chiamati a testimoniare, i loro racconti sono spesso oggettivi, lucidi e freddi. Tracciano il quadro con semplicità disarmante e ti dicono: “Papà è violento con la mamma e le mette le mani addosso”.

Le donne vittime di violenza invece come si comportano durante un processo?

Spesso giustificano. Ammettono le violenze dopo tanto tempo e con fatica, per poi assolvere l’aguzzino. L’alibi può essere la depressione di lui, il lavoro, un momento no. Ma raramente gli uomini maltrattanti si redimono. Il tasso di recidiva è alto, chi commette violenze di solito le ripete. Nemmeno la repressione risolve: dopo tre anni di carcere uno è ancora più arrabbiato. La certezza della pena non si discute, ma all’uomo violento serve un percorso terapeutico.

Capita spesso che le donne neghino le violenze in tribunale dopo averle denunciate?

Nell’80% dei casi, paradossalmente è indice di verità. Con la violenza di genere spesso funziona al contrario: chi ha voglia di raccontare e parla in modo coerente senza tentennamenti, non è escluso che dica menzogne. Invece chi è reticente e cambia idea, con ricostruzioni lacunose, quasi sempre ha subito abusi. Se sei un giudice specializzato prendi per mano la vittima e l’accompagni. Se non sei specializzato, quando la donna cambia versione archivi il caso e amen.

Come si fa ad accompagnare la vittima verso la denuncia e durante il processo?

All’inizio non sapevo come fare. Quando le vittime volevano cancellare la querela o negare le accuse, istintivamente rispondevo anche con veemenza: “Sarò costretto a mandarla in procura per falsa testimonianza”. Soffrivo, ma vedevo che funzionava e le donne confermavano le accuse. Mia moglie mi ha aiutato a capire: così sollevo la donna dalla minaccia della ritorsione e le tolgo il fardello della responsabilità, perché se io la costringo a parlare allora il suo aguzzino incolperà me.

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