In scena

Dal palco a bell hooks, per rimettere al centro le donne servono le alleanze

La coreografa e interprete - Elisabetta Consonni ha portato al “Periferico Festival” di Modena il suo spettacolo “And The Colored Girls Say: Doo Da Doo Da Doo Da Doo”, un’indagine coreografica sul margine scenico come metafora del margine sociale. Le abbiamo chiesto di raccontarci la genesi del suo lavoro

Di Elisabetta Consonni
24 Ottobre 2022

È tornato a Modena, a partire dallo scorso 20 ottobre, Periferico Festival. Giunta alla sua quattordicesima edizione, la manifestazione internazionale che porta l’arte nello spazio urbano proseguirà per tre fine settimana fino al 6 novembre. Tra le ospiti del weekend appena trascorso, Elisabetta Consonni – coreografa e interprete – ha proposto il suo “And The Colored Girls Say: Doo Da Doo Da Doo Da Doo”, un’indagine coreografica sul margine scenico come metafora del margine sociale, ispirato alla figura della saggista militante bell hooks. Proprio con Consonni abbiamo riflettuto sui corpi femminili e sulla loro posizione all’interno della società. Tra gli altri artisti presenti: i compositori olandesi Rob Strijbos e Jeroen Van Rijswijk, il sound designer italo-ecuadoriano Ismael “Condoii” Condoy, il collettivo artistico Corps Citoyen, basato tra Tunisi e Milano. E ancora Claudia Losi, Virgilio Sieni, la compagnia Archivio Zeta e la cantante Francesca Morello. È possibile vedere tutto il programma su perifericofestival.it.


Era il 2010 e io lavoravo in un aeroporto. Incontravo sempre le donne del servizio di pulizie e avevo stretto amicizia con una di loro. Un giorno, in un momento di scambio, mi ha raccontato che lei e le sue colleghe non potevano passare dall’atrio quando era frequentato, perché rischiavano di sporcare l’immagine dell’aeroporto. La cosa in sé mi era sembrata scioccante e di fatto era in perfetta linea con il progetto che avevo appena avviato.

And the colored girls say: Doo da doo da doo da doo è uno spettacolo che riflette sulla marginalità a partire dalla figura delle coriste nella musica Motown. Cantanti donne prevalentemente nere che contribuiscono alla bellezza, al volume e alla profondità della musica di una canzone agendo da un piccolissimo spazio scenico nascosto dalle luci della ribalta.

Questo è un lavoro che porta una riflessione sul posizionamento della donna nella società insieme a tutte quelle figure che stanno ai margini, che non devono essere viste ma che fanno in modo che ciò che le circonda sia decoroso, più bello, migliore.

Nella figura della corista c’è tutto quello rappresenta le marginalità.

I gesti, la soluzione spaziale e le modalità di prendere voce delle coriste fanno tutte parte di un processo più vasto di marginalizzazione: sono donne costrette a stare in una periferia, tante persone in pochissimo spazio che abitano lo sfondo di un centro che deve brillare.

Sono figure che stanno a ritmi non decisi da loro, imposti dall’alto, e intervengono nel vuoto lasciato dal cantante. Le loro sono parole predeterminate, assolutamente non autonome, limitate anche nel loro significato, quel doo da doo da doo da doo che Lou Reed cita e ripete nella sua Walking on the Wild Side.

Le coriste non vanno oltre a quella possibilità di parola, eppure musicalmente interpretano una pratica complessa che è quella dell’armonizzazione. Ogni volta che torno in scena con questo spettacolo, insieme al resto dell’équipe, mi rendo conto di come questa pratica sia veicolo di alleanza, un terreno nel quale si sperimenta non solo un’espressione vocale ma anche una profonda capacità di ascolto interpersonale che passa dalla voce e dal corpo di tutte e di tutti.

Dal 2010 ad adesso il mio senso politico rispetto a determinati margini è molto più focalizzato e preciso. Il pensiero di bell hooks è intervenuto in maniera importante nella creazione dello spettacolo, motivandomi a riflettere a fondo sul prendere parola di queste donne a cui la creazione e il lavoro sul corpo si ispira.

Da dove prende parola la donna oggi? Io ho dovuto fare un lungo lavoro su di me per comprendere le sfumature delle parole che io stessa scelgo e per capire che è comunque difficile dire ciò che ho bisogno di esprimere: è molto facile rimanere incastrati in ciò che si dice platealmente. Usare le parole giuste dal proprio punto di vista non è così scontato. Questo non significa solo non lasciarsi sottrarre le parole dal patriarcato ma anche non farsi catturare le parole dal mainstream dell’anti-patriarcato.

Bisogna che ogni donna trovi il proprio posto all’interno del discorso.

Sono convinta che se la posizione da cui si parla è situata ed estremamente esperienziale, cioè se si è oneste con la propria esperienza e il proprio vissuto, allora è possibile non fraintendere se stesse né essere fraintese. È una possibilità che si può realizzare se si parte da ciò che vive il proprio corpo.

E relativamente a questo, cioè al corpo delle donne in scena, quello a cui come coreografa presto attenzione è giocare con i movimenti, le azioni, i gesti interpretati per fare in modo che gli stereotipi non prendano il sopravvento, che non rubino spazio all’azione. È un continuo dribblare. Non c’è una formula. E bisogna essere molto coscienti di quali sono gli stereotipi che ti possono mettere addosso o in cui puoi cadere se non ti metti continuamente in discussione.

Mettere in scena altri corpi oltre il mio mi riporta al discorso delle alleanze: And the colored girls say: Doo da doo da doo da doo non è solo uno spettacolo di Elisabetta Consonni, ma anche di Masako Matsushita e Susanna Iheme e di Francesco Dalmasso. Il coinvolgimento di un uomo in scena, Daniele Pennati, all’inizio del percorso di questo spettacolo, era importante per me perché il femminismo non è una questione che riguarda solo le donne, anzi, e il discorso che si è intrecciato tra la marginalità, il corpo, bell hooks e il posizionamento e la possibilità di prendere parola aveva bisogno di un gruppo e non di me sola per emergere con forza.

Prendere parola è anche il discorso al centro di Periferico festival, all’interno del quale questa riflessione nasce dopo averlo frequentato con spettacoli e residenze artistiche. Il collettivo Amigdala, che organizza da 14 edizioni il festival, è un collettivo completamente al femminile e genera occasioni fortemente politiche sul tema del femminismo e dell’accessibilità al discorso pubblico. And the colored girls say a Modena ha trovato non solo un contesto nel quale precisare la sua direzione di pensiero, ma anche la forza della fiducia derivata da una precisa direzione artistica condivisa: se diamo parola a qualcuno, senza giudizio e senza predeterminazione, quella voce interverrà sostenuta dall’ascolto di un pubblico-assemblea.

E fiducia, presenza e ascolto sono alla base, ancora una volta, di quel discorso iniziale che ruota attorno al tema dell’alleanza, la maniera migliore per percorrere la strada verso un futuro.

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