L’intervista

Dario Fo, cinque anni dopo. Il racconto di Jacopo: “Noi dispersi in Svizzera. Gli schiaffoni di mamma. E il rumore degli alluci…”

Jacopo Fo - Suo padre Dario è morto il 13 ottobre di cinque anni fa: “Dipingeva pure in ospedale”

3 Ottobre 2021

Che poi il caso diventa solo una scusa, una parabola della mediocrità. Non si è geni a caso. Artisti a caso. Uomini a caso. Cittadini a caso.

Dario Fo non è casualità. È stratificazione e sintesi di una piramide di storie. “Per comprendere la sua arte ho rivisto a rallentatore, fotogramma per fotogramma, gli spettacoli. E lì ho capito. Ho capito che sul palco, solo lì, apriva la sua cassaforte delle emozioni, del dolore, dei traumi, della follia, della guerra. E diventava un mistero”.

Chi parla è Jacopo Fo, 66 anni, testimone consapevole di un mondo. Il suo mondo. Che per molti è anche parte di un mondo collettivo. Non utilizza parole a caso, concetti vacui, non si nasconde dietro la retorica, dietro la poesia forzata; non si cela dietro la banale consapevolezza di essere figlio ed erede di una magia umana e artistica, di un sodalizio naturale, dove Dario Fo e Franca Rame andrebbero pronunciati senza pausa. E il tredici ottobre sono cinque anni dalla morte del padre.

Passati cinque anni, la prima immagine.

Gli ultimi giorni in ospedale: scioccanti; (pausa) ha affrontato la morte in maniera consapevole ma fingendo di niente: voleva dipingere le pareti della stanza per materializzare le allucinazioni che viveva a causa delle medicine.

Artista fino all’ultimo…

Non voglio mitizzare quella situazione, perché era spaventato; con un nostro amico, Doriano Cranco, si era sfogato: “Sto lottando come un leone”, mentre con me si comportava senza tentennamenti, mi parlava di progetti, di idee, di spettacoli da realizzare negli anni successivi; (cambia tono) è stato un bel modo per affrontare gli ultimi giorni, perché lui, al di là dell’ictus del ‘97, è sempre stato bene; anche dall’ictus uscì dipingendo otto ore al giorno, eppure riusciva a vedere solo una striscia verticale di un centimetro: l’attività del cervello per curare il cervello.

Quando pensa maggiormente a suo padre?

In questo periodo sto realizzando la regia di un’operetta, La serva padrona, e ho il problema dei costumi da invecchiare; (sorride) era il 1963 e mia zia costumista si presenta con tutti i vestiti della corte del Re di Spagna. Vestiti perfetti, bellissimi, di tessuti pregiati. Mio padre li stende a terra e inizia a sporcarli con spray di vari colori. Io piangevo, credevo fosse impazzito, in realtà li stava rendendo adatti al teatro, altrimenti con le luci sparate sarebbero sembrati finti perché lucidi.

Nel libro ricorda che una delle regole di suo padre era di non mollare mai. E lei aggiunge: “Non mollare può diventare l’anticamera del martirio”.

Per questo ho dovuto consultare uno psichiatra bravissimo, proprio per capire cosa mi scatta nella testa. “Dottore, non posso smettere di fare quello che sto facendo, qualunque cosa succeda”. E lui: “Perché, se ti fermi cosa accade?” Dopo la domanda sono andato in crisi, nella mia mente non esisteva quel quadratino, non esisteva il diritto di buttarmi in terra e piangere. Da questo punto di vista la mia famiglia era disumana.

Anche sua madre?

Lei urlava, piangeva, emetteva emozioni, però all’atto pratico era un carro armato, non in grado di deviare dalle sue azioni; azioni gestite in chiave fisiologica, quasi animalesca.

Mentre suo padre.

Uguale ma senza piangere e senza urlare.

Mai?

Ricordo mamma dopo il rapimento: era in casa, distrutta, piena di bruciature, sangue, tagli. Qualcosa di incredibile. Eppure non volle andare in ospedale. (pausa lunga) È toccato a me medicarla. Io e lei. Soli. Quando finalmente è riuscita ad addormentarsi, sono tornato in salotto e ho trovato una decina di amici, seduti dappertutto, l’appartamento era piccolo, e mio padre in piedi. Immobile. In silenzio. Per questo mi sono avvicinato e l’ho abbracciato, quasi con rabbia, come per spronarlo a parlare. A chiedermi qualcosa.

Invece?

Niente. Col senno di poi sono certo che ha passato delle notti allucinanti. Ma restava impassibile. (Pausa) C’è un architrave nella cultura delle mie due famiglie.

Cosa intende?

Da una parte proveniamo da marionettisti, dei paria, quelli che oggi potremmo definire degli zingari. Ed erano i miei bisnonni da parte di mamma; fino a quando arriva mia nonna, figlia di un ingegnere; nonostante lo scandalo e l’opposizione dei suoi, decide di sposare uno zingaro. Lei era bellissima, religiosa, precisa, maestra elementare, una donna di ferro in grado di organizzare una famiglia di gitani.

Un esempio.

Con lei era vietato accamparsi: a ogni tappa della tournée dovevano costruire una casa utilizzando le scenografie; mamma è cresciuta nella stanza della regina, piuttosto che della fata, le finestre erano finte ma il panorama raccontava di mondi meravigliosi pure se irreali.

Gli altri nonni?

Contadini della zona di Alessandria; nonna raccontava le storie dei partigiani, storie incredibili ma più vere di quelle che si possono trovare sui libri. Prese le distanze dal marito: continuarono a vivere insieme ma ognuno portava avanti la Resistenza per i cazzi suoi.

Come mai?

Nonno era un cagone secondo lei, si occupava solo di far scappare gli ebrei in Svizzera; (pausa) venne arrestato e poi liberato grazie alla testimonianza di un gruppo di fascisti… (sorride e devia leggermente dal discorso) Mio padre era un imboscato dentro l’esercito, non partecipava alle comuni manovre con la scusa che era un pittore; poi il suo colonnello lo prese da parte e gli spiegò che c’era la guerra e che la storia non reggeva più, quindi papà si procurò i documenti falsi e scappò.

La battaglia di sua nonna in cosa si differenziava da quella del marito?

Lavorava con i gappisti; nonno no.

Bel mix di nonni.

Torno al punto: da noi non si molla. E con un sottofondo che recita: l’esistenza è uno scontro infinito. Questo approccio è ancor più forte per chi nella vita fa il buffone: quando mio padre era immobile in quella cazzo di stanza, non aveva bisogno di parlare, era come se dentro di sé dicesse: è successo, l’avevamo messo in conto. Basta. Chiuso.

Sua madre spronava suo padre?

Altro approccio, anche fisico: mamma tirava dei gran schiaffi, a volte a sproposito, anche quando avevo ragione; un giorno me ne mollò uno perché lei non aveva capito un problema di aritmetica. Alla fine comprese l’errore e mi chiese scusa.

I no di suo padre.

Molti genitori non capiscono la forza di un comportamento coerente: non servono i “no”, basta la pratica dell’esempio. (Pausa) Una mattina mamma legge il giornale e trova la storia di un signore svenuto perché non mangiava da tre giorni mentre cercava lavoro. Aveva tre figli. Siamo partiti, tappa al supermercato, e poi diretti a casa sua con in mano quattro scatoloni e un assegno. Da quel giorno lo ha finanziato fino a quando non ha trovato lavoro.

La reazione del lavoratore?

Come se avesse di fronte la Luna; avevo 12 anni e mi rendevo conto di aver visto una persona sorridere dentro. E ho chiara pure l’emozione di mia madre: chi regala ha più di chi riceve.

Suo padre la seguiva in queste operazioni?

In generale mia madre sentiva il bisogno di andare di persona e la gente si stupiva di trovarsi davanti un personaggio conosciuto, uno schianto dal punto di vista estetico, vestita come una circense elegante, quindi con pelliccia e tacchi.

Lei viveva perennemente in mezzo a uno spettacolo.

Sì, ma era pure pesante; in casa arrivava un po’ di tutto, e mamma è stata sempre malata; (ride) anche le situazioni comuni per i più, con noi diventavano delle avventure.

A cosa pensa?

Una mattina alle sette partiamo in macchina per Francoforte: a mezzanotte eravamo ancora in Svizzera, a duemila metri, con la strada che finiva in un ghiacciaio e davanti a noi la sola salvezza di un albergo dotato di ristorante.

La Svizzera?

Sbagliammo strada di 500 chilometri; mio padre, nonostante fosse architetto, non capiva le carte stradali e si ostinava a decidere la direzione.

Sua madre zitta?

Guidava sempre lei, per fortuna papà non aveva preso la patente e non capiva un cazzo di strade, eppure pretendeva di indicare il dove; mamma sapeva guidare, capiva di strade ma lo assecondava per evitare discussioni; (sorride, molto) un’altra volta a mezzogiorno e mezzo, piena estate, in una Pordenone deserta, cercano qualcuno per chiedere informazioni. Vedono una ragazza, mamma inchioda, papà scende, la insegue, la chiama, la ragazza si gira e inizia a correre. A papà erano caduti i pantaloni ed era rimasto in mutande. Mamma si stava sentendo male per le risate e io terrorizzato pensavo: costui dovrebbe proteggermi.

Quando ha inquadrato la sua famiglia come speciale?

Da piccolo non avevo metri di paragone, solo alle medie ho intuito che provenivo da “marziani”; (pausa) non capivo di calcio, di musica, di auto. Capivo la storia del Vietnam, la Rivoluzione cinese, Barbarossa contro i milanesi o Prevert.

Come interagiva con i bambini?

Un dramma. Anche al liceo c’era poca gente con la quale potevo confrontarmi, e l’altro dramma è che non riuscivo a scindere la comunicazione verbale dall’attrazione sessuale: ho rinunciato a ragazze bellissime, che magari ci stavano, ma a un certo punto me ne andavo con la frase “non posso stare qui, non parliamo di niente”. E fuggivo.

Le dispiaceva quando fermavano i suoi per strada?

Papà era contento, per lui il pubblico andava rispettato, con le persone felici perché si fermava, parlava, chiedeva della famiglia e a distanza di anni ricordava le risposte.

Nonostante la distrazione.

Appunto; (pausa) come dicevo, mamma ha sempre assistito economicamente una serie di persone e io mi occupavo, come oggi, della parte pratica; un giorno vado da papà e mi lamento di una delle donne aiutate: “È una rompicoglioni”. E lui: “Non devi parlare così, non conosci la sua storia”. E da lì mi ha raccontato delle violenze subite, i postumi e i dettagli; mentre ascoltavo, pensavo: “Quando ci ha parlato?”

Un padre imprevedibile nella vita ma organizzato nel lavoro…

Viveva per il teatro. Quando iniziava a scrivere un testo entrava in uno stato estatico, e quello stato durava giorno e notte; di notte mia madre si svegliava e lo implorava: “Smettila di pensare non riesco a dormire”. Perché papà, e io uguale, quando rifletteva schioccava l’alluce contro il medio e il rumore non era forte, ma dopo un’ora e mezzo l’irritazione altrui è giustificata.

E con gli attori?

Pazzesco; (silenzio) se riesci a mettere in scena un gruppo di artisti che recitano le tue parole ed eseguono i movimenti indicati, ne nasce sempre un gioco, grazie pure al bravo attore che aggiunge particolari non previsti ma che arricchiscono la scena. Con un però…

Quale?

Mamma doveva imporgli di smettere: papà sarebbe andato avanti all’infinito, si divertiva come un pazzo, anche quando gli attori erano mezzi morti per la stanchezza; ricordo una scena dove si è rischiato lo scontro fisico tra loro.

Che era successo?

Il dramma si è sfiorato nella commedia Isabella tre caravelle e un Cacciaballe, dove era prevista una tempesta e otto attori dovevano muoversi, scontrarsi, cadere a terra e rialzarsi con un gioco geometrico. Provano per una settimana, ed ero piccolo, ma capivo la tragedia, con questi attori a pezzi, in preda a crisi isteriche. Piangevano. Fino a quando ci riescono con i costumi, le luci e i suoni sincronizzati. Felici. Distrutti ma felici. Poi guardano mio padre che sentenzia: “Ok, lasciamo perdere, non funziona”. E lì mia madre voleva assaltarlo.

(Fine prima parte. La seconda in edicola sul Fatto di domenica 10 ottobre)

Ti potrebbero interessare

I commenti a questo articolo sono attualmente chiusi.