Il centro di ascolto

Uomini che aiutano gli uomini: “I violenti sono figli di una cultura patriarcale”

Viaggio nell'associazione torinese che si occupa di uguaglianza e parità, promuove l’impegno dei padri nelle cure familiari e condivide i racconti di chi non sa gestire la rabbia. Il referente: “Poter pensare con gli altri, rielaborare e ascoltare le loro esperienze, abbassa il rischio di comportamenti aggressivi. L'inserimento in un percorso non allontana dalla galera chi commette un reato: si tratta di aggiungere degli strumenti, non di toglierne”

Di Romana Allegra Monti
1 Settembre 2021

Uomini che si occupano di uguaglianza e parità. Dovrebbe essere normalità, ma non è sempre così: spesso c’è la tendenza a pensare che la parità riguardi solo le categorie che la rivendicano e il sostegno alla causa, sbandierato e strumentalizzato da politica e istituzioni è ancora poco concreto. Esistono però delle realtà che tutti i giorni, si occupano di femminismo e parità tra generi, una persona per volta.

È il caso del Cerchio degli Uomini, un’associazione culturale con sede a Torino che aiuta la società a superare il modello patriarcale su cui è basata, partendo dall’ascolto degli uomini che la compongono. Ma non solo. Attraverso il progetto europeo “Parent”, realizzato con la rete del Giardino dei padri di cui l’associazione fa parte, si promuove l’impegno dei padri nelle cure familiari, fin dalla gravidanza. Insomma, diversi progetti e strategie con lo stesso fine: impattare sul gender gap, rimuovendo le condizioni che lo scatenano.

“Il vero punto è la parità, anche per quel che riguarda la violenza – spiega Andrea Santoro, Presidente dell’associazione – se ne parla molto, ma non si è ancora compreso fino in fondo che sarebbe uno scatto di civiltà in grado di ridurre drasticamente gli abusi”. Tanti non riescono ad accettare, ad esempio, che una donna faccia carriera, che abbia una posizione sociale migliore. “È un problema culturale – prosegue –. I comportamenti violenti non spuntano mai dal nulla e, nella maggior parte dei casi, non sono sinonimo di malattia”.

Il femminicidio, infatti, è quasi sempre l’ultimo atto di una serie di atteggiamenti iper-controllanti nei confronti della donna, considerata un oggetto su cui esercitare potere. Una catena che può essere spezzata attraverso la consapevolezza di se stessi e delle proprie azioni. Per questo nel Cerchio non si fa terapia, ma si condivide. Niente farmaci, niente psicologia. Solo un’analisi dei gesti, dei comportamenti e delle idee, attraverso un confronto che prova ad andare alla radice delle emozioni. “Non sono malati – spiega il gestalt counselor e referente del Centro d’Ascolto del Disagio Maschile, Roberto Poggi –, ma persone che devono imparare a mettersi in discussione”.

E lo fanno una volta a settimana, per un anno. Si siedono in cerchio e tirano fuori tutto: si lascia spazio alle storie personali, ci si conosce e confronta, si riflette sul proprio modo di vedere le cose. “Poter pensare con gli altri, rielaborare e ascoltare le loro esperienze, abbassa il rischio che si verifichino violenze. Certo non possiamo garantire che la rabbia sparisca per sempre ma, finito il percorso con noi, si è in grado di cavarsela da soli”.

Ma come si gestisce un eccesso di rabbia? “Ad esempio consigliamo di focalizzarsi sulle sensazioni che si provano in quel momento; chiediamo di frammentarle, descriverle e dare loro forma, di modo da imparare a riconoscerle e razionalizzarle”, continua Poggi. L’associazione, infatti, si compone di competenze psico-educative a largo raggio, in grado di considerare i vari aspetti della formazione di una personalità. “Sovente c’è un’eccessiva tendenza alla medicalizzazione, alla stigmatizzazione di questi soggetti, che peggiora la situazione – commenta Poggi –. Ricordiamoci che se una diagnosi corretta fa guarire, una sbagliata fa ammalare ancora di più”.

La maggior parte delle persone si rivolge al Cerchio spontaneamente, perché sente di voler cambiare il modo in cui vive le relazioni con gli altri: famiglia, partner, figli. “La legge sul Codice Rosso ha trasformato il nostro lavoro. Oggi anche i giudici iniziano a indirizzare da noi alcuni individui maltrattanti: si è capito che la galera serve a poco. Molti chiedono più leggi, ma le leggi ci sono, basta applicarle. L’inserimento in un percorso non allontana dalla galera chi commette un reato: si tratta di aggiungere degli strumenti, non di toglierne. Serve più prevenzione e rieducazione su questi temi”. Un ruolo fondamentale, in questo senso, è giocato dalla scuola: “Noi facciamo formazione al personale sanitario, adulti e ragazzi, ma i primi a cui dovremmo farla sono gli insegnanti. Sulla prevenzione lo Stato non sta facendo quanto potrebbe: centri come il nostro sono circa una trentina, ne servirebbero di più, in particolare al sud”. E, specialmente, in un paese dove la violenza di genere (e di ogni genere) è ancora molto radicata.

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