Sospetto

La transizione verde all’italiana tutela soprattutto Eni, Fca & C.

Il Pnrr ha effetti modesti sul calo della CO2: sostituire il gas con l’idrogeno (da gas) e non puntare sulla mobilità elettrica aiuta a coprire i ritardi dei nostri colossi, non l’ambiente

Di Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia
31 Maggio 2021

La base di ogni “transizione ecologica” è la transizione energetica per abbattere le emissioni dei gas serra, dei quali l’anidride carbonica (CO2) è il principale. In termini quantitativi – dando per buona l’interpretazione del ministro Roberto Cingolani di un obiettivo “italiano” di un taglio del 51%rispetto al 1990 (quello europeo è del 55%) – il nostro Paese dovrà ridurre di circa 174 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti al 2030. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina circa il 40% delle risorse all’obiettivo climatico, ma non è dato sapere quale quota di riduzione delle emissioni riuscirà a ottenere, anche se le prime stime sono di riduzioni assolutamente insufficienti.

La gran parte delle attese del governo è, infatti, sulle riforme per sveltire la burocrazia e lo spezzettamento delle competenze che hanno sostanzialmente bloccato il settore rinnovabili dal governo Monti ad oggi. Nell’era degli incentivi – legati al pacchetto energia 20-20 dell’Unione Europea – in Italia si era segnato un record (mondiale) di installazioni nel 2011 pari a circa 11 GW in un solo anno (l’anno scorso erano 0,8). Certo, gli incentivi erano sin troppo generosi – o, meglio: il meccanismo degli incentivi che in Germania veniva aggiornato ogni 3 mesi, da noi non aveva avuto lo stesso controllo risultando generoso – ma quel record ha mostrato che anche in Italia è possibile uno sviluppo rapido del settore. Che significò anche occupazione di tecnici e operai specializzati nell’ordine delle decine di migliaia.

Eravamo allora in un’epoca di stagnazione economica e dei consumi di energia elettrica. Tutta questa nuova potenza elettrica legata a impianti solari, eolici e a biomasse andò a scapito delle fonti fossili – carbone ma anche gas. Sul gas c’era stata negli stessi anni una corsa a installare impianti che poi funzionarono poco perché sulla rete le rinnovabili hanno la precedenza e, essendo incentivate, entrano con un prezzo nullo. Un fenomeno simile accadeva anche in Germania: in certe ore il prezzo all’ingrosso dell’elettricità era negativo, cioè per poter produrre con il fossile bisognava pagare.

Questo conflitto gas-rinnovabili ha segnato gli ultimi dieci anni. Una ripresa seria della produzione da rinnovabili avrebbe come conseguenza una compressione del mercato del gas. Con il “capacity market” – impianti pagati per esser pronti a entrare in funzione per stabilizzare la rete – si è trovata una funzione agli impianti a gas, che però può essere assolta dalle rinnovabili accoppiate a batterie industriali, come già avviene in alcuni degli stati americani, e negli Usa il prezzo industriale del gas è meno della metà che da noi.

Ecco: se si facesse sul serio con la transizione ecologica, un primo settore ad andare in difficoltà sarebbe quello del gas e, tradotto in nomi e cognomi, Eni e Snam anzitutto. Che stanno utilizzando il tema idrogeno per riqualificare le proprie attività, ma nella direzione assai improbabile di sostituire l’idrogeno (prodotto da gas) al gas per mantenere la loro quota di mercato. Questa strategia è una sorta di “ammuina del gas”: Eni vuol farlo producendo idrogeno da gas e iniettando la CO2 sottoterra col CCS come a Ravenna – una tecnologia promossa dai petrolieri con risultati assai scarsi e costi elevati – Snam vuole intervenire trasformando i metanodotti in “idrogenodotti”, operazione costosissima e insensata in termini energetici. L’idrogeno gassoso ha, infatti, circa un terzo dell’energia del metano e costi circa tripli di trasporto: meglio trasportare l’elettricità e produrre in loco l’idrogeno (verde, se l’elettricità è da rinnovabili).

Se poi si facesse davvero sul serio anche per la mobilità sostenibile in ambito urbano e si creassero le condizioni (cioè colonnine di ricarica in numero significativo) per la diffusione dei veicoli elettrici, a soffrire sarebbe l’ex Fca ora Stellantis, in ritardo su questo settore. Quindi oltre al settore del gas anche quello dell’automobile è tra quelli che frenano, essendo (colpevolmente) in ritardo. E, infatti, l’ad del colosso Carlos Tavarez lamenta che “l’auto elettrica è imposta dai governi”. Certo, sono i governi che devono rispondere alla sfida climatica, cioè uscire dall’era del petrolio e delle fossili. Anche se travestite da idrogeno.

Il governo Draghi farà sul serio? Se il ministro Cingolani non trova di meglio che mostrare a John Kerry – inviato speciale USA sul clima – gasdotti attuali e progettati, peraltro ricevendone critiche, sembra improbabile: al momento più che transizione ecologica ciò che vediamo è una finzione a tutela di chi non vuole un vero cambiamento (Eni, Snam) o è in ritardo (ex Fiat). Perdere tempo e fare greenwashing è la nuova forma della “resistenza fossile” al cambiamento.

di Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia

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