L'intervista

La polizia: “Per prevenire i femminicidi mandiamo gli uomini in terapia”

La dottoressa Alessandra Simone, dirigente della Divisione anticrimine della Questura di Milano: “Gli agenti delle volanti sono formati, per far scattare una denuncia basta che la vittima racconti il perpetuarsi dei maltrattamenti. Ai vicini dico: segnalate, rimarrete anonimi. Ma è fondamentale intervenire sui maltrattanti”

10 Febbraio 2021

Piera Napoli aveva 32 anni e tre figli. Faceva la cantante neomelodica a Palermo. Le cronache raccontano che da un paio d’anni viveva con suo marito un matrimonio da “separati in casa”. Piera forse aveva un’altra storia d’amore, forse no, ma tanto è un elemento di assoluta inconsistenza in questo racconto. Perché ciò che è successo non è colpa di Piera. Il fatto è che Salvatore la considerava un oggetto di sua proprietà. E, piuttosto che farsela rubare come un’utilitaria qualsiasi, l’ha uccisa: ha preso il suo coltello da macellaio e ha infierito sul corpo della moglie, per poi “coprirla con una coperta” poiché quella vista gli faceva male. E si è costituito.

Piera è una delle tre donne uccise in Italia in 24 ore, e a (s)favore delle statistiche annuali diciamo che siamo ancora all’inizio del 2021 e neanche c’è più il lockdown.

Piera, però, a differenza delle altre vittime di cui abbiamo letto i tristi resoconti sui giornali, qualche settimana fa aveva chiamato la polizia. Una volante era intervenuta in casa sua, ma poi Piera non aveva voluto sporgere denuncia contro Salvatore. Quando l’orco vive in casa, e per di più ci sono figli di mezzo, decidere di denunciare non è cosa facile. Soprattutto se parenti e vicini non hanno mai visto né sentito nulla. O hanno pensato bene di farsi i fatti propri. “Nel 90 per cento degli interventi la donna dice che è tutto a posto”, racconta la dottoressa Alessandra Simone, dirigente della Divisione anticrimine della polizia di Milano.

E allora cosa si fa in questi casi? Possibile che la pattuglia vada via come se nulla fosse?

Non conosco il caso di Palermo, e non posso sapere com’è andata. Ci possono essere degli errori o delle sbavature, certo. Però le dico che la procedura che si utilizza in questi casi è rigida e conosciuta da tutti gli agenti.

Ce la illustra?

Abbiamo un programma ventennale di formazione del personale, per prepararlo al miglior approccio possibile. Tenga presente che non sono mai interventi facili, perché molto spesso le vittime, pur subendo violenza di ogni genere (psicologica, economica, fisica) hanno un rapporto sentimentale con l’uomo e sono tante coloro che pensano di poter “salvare” il proprio carnefice. Allora il personale delle Volanti adotta il “protocollo Eva”, messo a punto dopo anni di studio, che individua passo per passo ciò che occorre fare: dalla messa in sicurezza dei minori all’ascolto della vittima in un ambiente separato, per metterla nelle condizioni di raccontare senza paura. Una volta terminato l’intervento, poi, gli operatori sono tenuti a redigere una annotazione di servizio che darà contezza di quanto accaduto. Il protocollo è oggetto di formazione obbligatoria per gli agenti.

Benissimo, ma se la donna non denuncia, che succede?

Intanto chiariamo che i maltrattamenti in famiglia (art. 572 del Codice penale) sono procedibili d’ufficio, a patto che ci sia la abitualità del reato: serve una narrazione delle violenze o precedenti interventi.

Appunto. Poniamo il caso di una donna che chiama la polizia per la prima volta. Dovrà essere lei a denunciare, altrimenti non si può far nulla.

È proprio in questo che gli agenti devono essere bravi a farle raccontare tutto, anche il pregresso. A quel punto si procede d’ufficio e in molti casi scatta l’ammonimento del Questore, istituto fondamentale introdotto dal legislatore nel 2013 per i casi di violenza domestica.

L’ammonimento, però, non significa allontanamento dell’uomo maltrattante. Il quale rimane tranquillo tra le mura domestiche.

L’ammonimento è una sorta di cartellino giallo. Naturalmente stiamo parlando di una violenza che è solo all’inizio, non di casi gravi. Però è vero, non basta: è per questo che a Milano, dal 2018, abbiamo istituito un altro protocollo, “Zeus”, che adesso stiamo esportando in tutta Italia. Quando il Questore “ammonisce”, l’uomo viene invitato a fare un percorso trattamentale. Non parlo di psicoterapia: lavoriamo con il Centro italiano per la promozione della mediazione, diretto dal criminologo Paolo Giulini. Lì gli uomini maltrattanti cominciano ad acquisire consapevolezza del disvalore della propria condotta.

E funziona?

Dei 353 uomini ammoniti, 275 hanno “accettato l’invito” (il 78,9%). Centotrenta di loro erano stati ammoniti per violenza domestica, 145 per stalking. Sa quanti di loro hanno realizzato ulteriori condotte violente? Soltanto 27. Significa che, soprattutto quando si interviene all’inizio, funziona. E si possono salvare altre donne.

Ma un invito non è un obbligo.

Forse su questo dovrebbe intervenire il legislatore.

Dottoressa, l’omertà intorno alla violenza di genere a volte è spaventosa.

Le persone possono avere paura delle ritorsioni. Ma allora è importante che si sappia che chiunque segnala un caso rimane anonimo. Il nome di quel vicino, di quel medico, di quell’amico non uscirà mai. Noi siamo tenuti al silenzio. Nessuno verrà mai a saperlo. Quindi parlate con noi, salvate quelle donne.

Mi dice una cosa, francamente: la narrazione giornalistica dei femminicidi le appare corretta? Metto le mani avanti: per me non lo è.

Le rispondo così. Pensi a un titolo possibile: “L’uomo ha perso la testa, era pazzo d’amore”. Ma che amore è quello che uccide? È giusto tenere alta l’attenzione, ma facciamolo nel modo corretto.

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