Franco Cardini

“Il rifiuto della morte peggiora il contagio”

2 Marzo 2020

Con Franco Cardini cominciamo a chiacchierare di pestilenze e quarantene e la prima cosa che commentiamo è la decisione, presa dalle autorità ecclesiastiche, di non dire messa. “Hanno fede in Dio ma forse hanno più fede nel virus”, osserva il professore, emerito di Storia presso l’Istituto di Scienze Umane e Sociali di Firenze, oggi assorbito nella Scuola Normale di Pisa. “Nei Promessi Sposi il cardinal Federico Borromeo – uomo intelligente e che sapeva benissimo che il contagio aveva la forza di propagarsi per quanto le cognizioni scientifiche del tempo non fossero naturalmente quelle di adesso – non poté evitare che si organizzasse una grande processione con l’urna di cristallo con il corpo di San Carlo. Il tutto avvenne per le vie di Milano con gran partecipazione di popolo, una cerimonia molto pietosa e partecipata…”

Dopodiché?

Il contagio peggiorò!

In quei secoli che chiamiamo erroneamente bui i popoli hanno avuto a che fare con le pestilenze. Si reagiva come oggi?

Le differenze riguardano ovviamente le conoscenze mediche. Ma le reazioni erano più o meno simili. Stiamo parlando però di persone la cui concezione della vita era ancora equilibrata, gente che sapeva che bisogna morire. Morte e malattie erano più comuni, più vicine. La modernità ha portato con sé una sorta di diffusa volontà di potenza che confligge col nostro pur vantato razionalismo: la morte si rifiuta, si nega, si dissimula, si eufemizza, si nasconde grazie a un complesso sistema di segregazione sociosimbolica per cui gli ammalati vengono nascosti e i funerali travestiti il più possibile da eventi non luttuosi. Nel Medioevo e nella prima età moderna, fino al Settecento, si reagiva viceversa ostentando: penso ai trionfi della morte, alle danze macabre. Era un modo di rassegnarsi, ma anche di “addomesticare la morte” che oggi, negata, torna “selvaggia”; lo sanno bene gli pasicanalisti. Nell’Europa cristiana, l’epoca delle grandi epidemie va dalla metà del Trecento alla metà del Seicento, secoli che corrispondono alla “piccola glaciazione”. Il picco è stato tra il 1347, quando arrivò la yersinia pestis a Messina con le navi genovesi che portavano il grano dal mar Nero, e il 1351-52. La fase endemica dura ancora oggi: negli ospedali dell’Asia centrale ci sono ancora reparti con ammalati di peste, che non suscitano allarme perché si sa come curarli e come circoscrivere il contagio.

C’era più enfasi o più rimozione?

Le notizie delle infezioni circolavano attraverso i canali commerciali. Ma appena arrivavano evaporavano nella maniera classica! Cioè all’inizio non ci si voleva credere, si minimizzava riducendo il tutto a episodi irrilevanti o causati da nemici politici. Del resto a metà del Trecento i tartari dell’orda d’oro che assediano la città di Caffa sul Mar Nero, a cui arriva tutto il grano dell’Ucraina, non sapevano che la peste è causata da un bacillo che si annida nello stomaco delle pulci e che le pulci abitano sui topi; pensavano semmai che le malattie contagiose si propagassero nell’aria. Ma tenevano d’occhio segnali come l’invasione dei topi, empiricamente associati al contagio.

E quindi che accadde?

I tartari praticavano una sorta di guerra batteriologica contro Caffa, enclave genovese, caricando le balestre con i cadaveri dei morti di peste. E così i genovesi si ammalarono, ma non se ne accorsero subito. Fecero in tempo a partire da Caffa navi con marinai già ammalati. In più, nonostante le “ordinanze” del tempo che prevedevano che a bordo delle navi ci fosse un certo numero di gatti, i topi resistevano nascosti nei carichi di grano e sbarcavano in Europa. Nelle cronache tre-seicentesche un continuo, periodico ripresentarsi del contagio in forma acuta: periodi di malatia endamica, che si trasformavano di tanto in tanto in epidemie fino a giungere alle vere e proprie pandemia, come nel 1348 e nel 1630 delle epidemie. Fino a quella del 1630, che ebbe uno dei focolai a Milano, come sappiamo bene da Manzoni.

Anche Boccaccio racconta della peste nel Decameron.

Sì, la differenza con Manzoni è che lui era un testimone diretto e probabilmente l’aveva anche contratta, guarendone. È vero che Manzoni racconta la peste milanese senza averla vista, però è altrettanto vero che aveva studiato bene il fenomeno sulle fonti storiche (scrivendo in merito anche un buon saggio, “La storia della colonna infame”) e aveva assistito ad altre epidemie, come quelle di vaiolo e di colera.

La spagnola nel 1918 ha fatto più morti della Grande guerra.

Si, anche se la medicina era già molto progredita non erano preparati ad arginare un’epidemia come quella. Come si sa la spagnola non c’entra nulla con la Spagna. Ma la reazione classica , allora come oggi, consiste in un primo tempo nel non credere nel contagio, poi di cercare ad ogni costo un responsabile magari istericamente individuato è addossare la colpa a gente che non c’entra. L’istituzione di un legame tra il contagio e gli stranieri, quelli che venivano da fuori, era spontanea e spesso favorita dal bisogno di trovare un capro espiatorio. Nel Trecento di parlava di ebrei che avvelenavano i pozzi; nel Seicento dei famosi “untori”. E poi c’era sempre la grande risorsa: il diavolo, le streghe. Si tratta di pregiudizi e di leggende antiche: quella dell’ebreo che avvelena i pozzi risale probabilmente già al VI secolo, cioè alla peste cosiddetta “di Giustiniano”. Anche Manzoni, nella Storia della colonna infame poi riversata nei Promessi Sposi, racconta di come si credesse che gli untori fossero inviati dal re di Francia contro gli spagnoli, perché era in atto la Guerra dei Trent’anni (1618-1648).

E oggi, che cos’è che non abbiamo imparato?

L’equilibrio tra la prudenza e la capacità di dominare le paure. Oscilliamo tra sottovalutazione e sopravvalutazione dei fenomeni infettivi, tra noncuranza ed eccesso di autotutela. Con questa epidemia dovremo fare i conti tra un po’ di tempo. Nel frattempo non riusciamo a reagire razionalmente. O non ci preoccupiamo affatto o ci preoccupiamo troppo: in entrambi i casi facciamo un errore.

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