Le Pietre e il Popolo

Chi ci governa impari dalle epidemie del passato

2 Marzo 2020

La Torre civica di Este è sempre quella che si vede sullo sfondo nel gran quadro di Giovan Battista Tiepolo che sta sull’altare del vecchio duomo: lì circondata dai cadaveri di una peste che santa Tecla sconfigge con le preghiere che eleva al Padreterno, oggi nella zona rossa di un coronavirus che ha invece tirato nella polvere tutti i santoni della politica italiana. Da Boccaccio a Manzoni a Camus, oggi riscopriamo giustamente i grandi classici della peste: che ci permettono di rimettere le cose in prospettiva. La Peste Nera del Trecento (che giunse dal nord della Cina…) fece oltre 20 milioni di morti in un’Europa, un terzo abbondante degli abitanti. Quella del 1656 si portò via solo a Napoli 240.000 persone (su 450.000). E non parliamo della pandemia della Spagnola nel 1918, che fece oltre 50 milioni di morti in tutto il mondo. Se, per fortuna, le proporzioni non sono paragonabili nemmeno di lontano, questa lunga storia di epidemie ha lasciato una scia di immagini, testi, memorie che oggi possono aiutarci a individuare costanti, a fare paragoni, a misurare i nostri tic e le nostre inadeguatezze.

Un episodio di una grande stampa romana del 1656, per esempio, ci mostra Mario Chigi, il fratello del regnante papa Alessandro VII, mentre accorre di persona, in carrozza, a controllare che le porte di Roma siano ben chiuse, e sorvegliate da armati. Si aveva ben chiaro, allora, che un’epidemia governata male poteva costare molto cara al potente di turno, foss’anche il papa. Proprio in quell’occasione il cardinale gesuita Sforza Pallavicino scrisse che le storie dovrebbero parlare meno delle gesta dei condottieri nelle guerre (le quali “non profitto arrecano al genere umano considerato tutto insieme”), e più del modo in cui i governanti affrontano tali “accidenti calamitosi”, perché in queste battaglie contro le pestilenze si combatte “non da una parte degli uomini contro un’altra, ma da tutta l’umana specie universale contro il più orrendo nemico che infierisca a suo sterminio”. È qua, aggiunse, che ”si manifesta il valore di chi regge i popoli”: perché la ragione vera per cui accettiamo che qualcuno comandi su tutti noi “con tanta larga mercede di preminenza ed entrate” è proprio perché poi ci difendano contro “essi contro essi fatti sinistri”. Non so se il cardinal Pallavicino troverebbe in salute il patto sociale che unisce gli italiani di oggi ai loro governanti, caduti uno dopo l’altro sul banco di prova del virus: quelli centrali che hanno bloccato, soli al mondo, i voli con la Cina; quelli leghisti che hanno dato una tale prova di incapacità (basterebbe il profluvio di tamponi a casi asintomatici) da stroncare non solo l’economia dei loro governati, ma anche (felice eterogenesi dei fini!) ogni idea di autonomia differenziata. Certo Pallavicino avrebbe apprezzato l’agudeza barocca di un ministro della Salute il cui più visibile contributo alla crisi è il calzantissimo cognome: Speranza. E avrebbe forse pure intravisto, nell’iconografia dell’impareggiabile governatore lombardo che indossa con tanta abilità una mascherina (di quelle completamente inutili), l’estrema derivazione di quelle meravigliose tute dei medici barocchi, fornite di lunghi nasi da riempire di balsami anti-contagio (quella che vedete è un raro esemplare originale, tedesco del 1700 circa). L’immagine straniante di uno di quei medici compare sul frontespizio di un’opera celebre (e dal titolo assai attuale…) del grande Ludovico Antonio Muratori: il Governo della peste (1714). Vi si legge che “tutte le terre e città invase dalla Peste, sanno e saprebbero dire onde sia proceduto il principio della loro infezione: cioè dall’aver trascurate le debite diligenze, e dal non aver fatto osservare le leggi prudentemente stabilite in somiglianti pericoli e disordini”. Tutto, cioè, sta nelle regole: che per essere scrupolosamente osservate, devono essere chiare e credibili. E dunque non dovrebbero, per dire, chiudere scuole e musei a Bologna, e lasciarli aperti e gremiti a Firenze: che sono di fatto un’unica città divisa in due parti collegate in mezz’ora da treni stracarichi di gente. Tra tante ragioni di sconcerto, almeno una consolazione: Muratori doveva davvero avere doti profetiche, perché sembra aver intravisto con tre secoli d’anticipo il mitico dottor Burioni: “Essendo i medici in concetto di aprir molto la bocca, bisogna star cauti in credergli tutto”. E poi si dice che studiare la storia non serve.

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