Voto agli anziani, breve apologo da Sofocle a oggi

23 Ottobre 2019

Qualche giorno fa Beppe Grillo ha lanciato una provocazione (ma forse non lo era del tutto): togliere il voto agli anziani. L’idea nasce dal presupposto che una volta raggiunta una certa età, i cittadini saranno “meno preoccupati del futuro sociale, politico ed economico, rispetto alle generazioni più giovani, e molto meno propensi a sopportare le conseguenze a lungo termine delle decisioni politiche”. In realtà quella della vecchiaia negletta è una vecchia storia. Anzi vecchissima. E risale a quando, in epoca preistorica, gli anziani venivano proprio fatti fuori, spesso con la scusa di qualche sacrificio rituale: secondo Timeo – si legge ne I supplizi capitali di Eva Cantarella – i Sardi inseguivano gli ultrasessantenni con il bastone, fino a farli precipitare dall’alto di una roccia nel mare. Presso gli Sciti, i vecchi, stanchi della vita, si gettavano spontaneamente. Idem, secondo Silio Italico, per i Cantabri, gli attuali Baschi.

A Roma, anche se Ovidio dice di non volerci credere, i sessantenni erano chiamati “depontani” perché probabilmente in età antica li buttavano nel Tevere (non per nulla c’era il detto Sexagenari de ponte). E comunque a sessant’anni si perdeva il diritto di partecipare alla vita politica. Nell’Atene di età classica le cose non andavano meglio. Poveri vecchi: il poeta Mimnermo in un frammento addirittura spera di morire entro i sessant’anni. In un altro dice che la “dolorosa vecchiaia” rende l’uomo bello simile al brutto, odiato dai fanciulli e disprezzato dalle donne. Nell’Edipo a Colono, che è la tragedia della vecchiaia, Sofocle definisce quell’età della vita “spregiata”. Detto da lui fa sorridere e non perché sia morto novantenne, ma perché veniva preso in giro dai suoi concittadini per essere stato beccato ad amoreggiare, fuori le mura, con un giovanotto quando lui era invece troppo in là con l’età: a sessant’anni si perdeva anche il diritto all’amore!

Venendo a epoche più vicine alla nostra il percorso storico del suffragio è stato, al contrario di quanto vorrebbe Grillo, verso l’universalità, da quando nelle prime elezioni politiche del 1861 furono iscritti nelle liste elettorali circa 400mila cittadini (l’1,90% della popolazione). Poi la battaglia è stata per l’inclusione, non verso l’esclusione. E il voto è stato una conquista. Prima poterono votare i cittadini italiani (naturalmente maschi) che avessero compiuto il 21esimo anno d’età, sapessero leggere e scrivere, avessero superato l’esame di seconda elementare. Per un certo periodo è stato necessario superare il tema per l’ammissione alle liste elettorali. Ma l’italiano non è mai stato uguale per tutti e molti tra quelli che si sottoponevano alla prova venivano respinti. Poi furono ammessi (dal 1912) anche gli analfabeti, maschi, che avessero compiuto i 30 anni o fatto il servizio militare. Da ultime sono state ammesse le donne, nel 1946.

Ora, non è ben chiaro a cosa miri Grillo con il restringimento della platea dei votanti: semmai avrebbe senso allargarla, visto l’allarmante tasso di astensionismo che segna un pericoloso e progressivo impoverimento della democrazia. Una volta l’astensione dal dovere elettorale era sanzionata (e in alcuni Paesi del mondo lo è ancora): difficile pensare che ripristinarla aumenti l’interesse al voto. Però ridurre il numero dei votanti ha un sapore amaramente antidemocratico, quali che siano le motivazioni. E a Grillo si può ricordare il saggio Solone, che alle lamentele di Mimnermo rispondeva: “Invecchio imparando sempre nuove cose”.

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