Cristo si è fermato a San Ferdinando

23 Febbraio 2019

L’odore di plastica bruciata ormai non si sente più. Dopo una settimana, il tanfo del ghetto lo ha sovrastato. Il fetore dell’immondizia ha fatto il resto, mescolandosi con i fumi della carne arrostita davanti ai cani che, dopo aver frugato nella spazzatura fuori dalle tende, si avvicinano, scodinzolando, alla baracca dove viene cucinata una vecchia pecora, comprata per 10 euro da uno dei pastori che, di tanto in tanto, porta il gregge nelle campagne della Piana di Gioia Tauro.

Siamo tra Rosarno e San Ferdinando. Di là, la terra spoglia, quello che resta delle vecchie baracche diventate improvvisamente illuminate con la rivolta di Rosarno del 2010; di qua, a soli 300 metri e attraversando la strada, la “nuova” tendopoli di San Ferdinando, quella fatta costruire dalla Prefettura due anni fa. Sullo sfondo, una quarantina di “nuovissime” tende blu, piantate su iniziativa del ministero dell’Interno pochi mesi fa dopo l’ennesimo rogo, dopo l’ennesimo morto. Un “paese” di quasi 2 mila abitanti, questa area delle tendopoli: una città dentro la città con le sue regole, i suoi drammi, le sue storie di uomini.

Dell’incendio in cui è morto una settimana fa il senegalese Moussa Ba nella tendopoli è rimasto solo qualche pezzo di legno annerito. Potrà forse servire per costruire un’altra capanna, o almeno come palo a cui attaccare le biciclette con cui ogni mattina, all’alba, i migranti vanno nei campi a raccogliere arance. Qui nessuno ha creduto al tweet del ministro dell’Interno Matteo Salvini in cui ha annunciato che “sgombereremo la baraccopoli di San Ferdinando: l’avevamo promesso e lo faremo”. Ma cosa succede nella realtà? “Se smantelliamo tutto e non abbiamo dove metterli, questi tornano entro pochi giorni”, trapela dagli ambienti istituzionali qui nella Piana. Tant’è che, dal Viminale, l’input dello sgombero non è mai arrivato a Reggio Calabria.

“Per gli extracomunitari di San Ferdinando con protezione internazionale, avevamo messo a disposizione 133 posti nei progetti Sprar”, proseguiva l’annuncio social del ministro. “Hanno aderito solo in otto (otto!), tutti del Mali. E anche gli altri immigrati, che pure potevano accedere ai Cara o ai Cas, hanno preferito rimanere nella baraccopoli. Basta abusi e illegalità”, ha tuonato Salvini. Ma la prefettura, che ha iniziato a procedere con i trasferimenti volontari negli Sprar e nei Cas, ha disegnato un quadro più complesso: dei 1.592 migranti che risulterebbero presenti nell’area (per sindacati e associazioni sarebbero molti di più), i migranti che possono essere trasferiti dallo Stato, perché entrati nel circuito dell’accoglienza, sarebbero 749. A questo numero si arriva sommando gli 80 migranti aventi diritto al Siproimi-ex Sprar (di questi solo 15, e non 8, a oggi hanno accettato) ai 669 richiedenti asilo (di cui solo 366 possono essere già collocati nei Cas; tra quelli già contattati, 180, in 73 stranieri si sono detti disponibili a essere trasferiti). La tendopoli si dimezzerebbe, ma gli altri 843 migranti? C’è chi è irregolare, e senza diritto a entrare nel circuito dell’accoglienza, ma c’è anche chi è già titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, e in quanto tale non può essere trasferito o “ricollocato” (per i sindacati sarebbero la maggioranza dei presenti).

In 8 su 10 hanno già ottenuto la protezione internazionale

Stando al rapporto di Medici per i diritti umani, quasi tutti i migranti non vogliono lasciare le baracche per paura di perdere il lavoro nelle campagne attorno a Rosarno. Qui, tra arance e clementine, si arriva a raccogliere e produrre la metà dell’intero dato nazionale. “Non voglio andarmene perché il mio padrone deve pagarmi le ultime giornate di lavoro. Se venissi trasferito in uno Sprar, mi darebbero un letto, ma come farei a lavorare se sono lontano da Rosarno?”. A 17 anni Diedy è partito dalla Guinea e ha raggiunto da solo la Libia. Da lì con un barcone ha attraversato il Mediterraneo. Adesso, a 19 anni, è uscito dal circuito dei minori non accompagnati e quest’inferno è diventato la sua casa. C’è anche chi è partito e ritornato. Come Mahamman, Niger. Cerno andrebbe via, invece. Non ce la fa più a rischiare la vita e sperare che non sia la sua la prossima tenda a prendere fuoco: “Ci hanno preso con il furgone e ci hanno portati al commissariato, ma lì ci hanno detto che non posso andare in uno Sprar perché ho un permesso per ragioni umanitarie. E mi hanno riaccompagnato qui”.

“Quando i migranti accettano di andare negli Sprar – spiega Abdel Ilah El Afia, sindacalista Flia-Cgil – la questura fa le verifiche e si accorge che quelli che godono di un permesso di protezione umanitaria sono l’80%: non possono più avere una seconda accoglienza, e quindi li rimandano indietro”.

Mohammed, del Niger, ha 42 anni mal portati. Nella baraccopoli è tra gli “anziani”. È nel “limbo” dal 2006, da quando di anni ne aveva 30. Ha visto la rivolta di Rosarno, il primo sgombero, la prima tendopoli, il secondo sgombero e la seconda baraccopoli. “Venite a visitarci solo quando c’è il morto. Per lo Stato italiano noi dobbiamo restare qui per sempre. In Libia i nostri fratelli sono torturati. Quando arrivano qui la situazione non cambia di molto. È vero: siamo liberi di uscire, ma siamo condannati a vivere in questo ghetto. Lo Stato fa la voce grossa, ma si dimentica di noi sfruttati nei campi per due soldi.”.

L’altra illegalità: a Reggio, solo 10 imprese agricole “regolari”

“Umanamente mi dispiace ma non ci posso fare nulla. A dirla tutta non sono affari miei”. A patto di restare anonimo, un agricoltore di Rosarno racconta che anche lui ogni tanto va alla tendopoli per trovare qualcuno che raccolga le arance: “Non posso fare altrimenti che farli lavorare a nero. Se li dovessi registrare tanto vale non fare la raccolta. Ho votato Salvini ma da queste parti, o fai lavorare a nero i migranti o ci rimetti”. In tutta la provincia di Reggio Calabria, secondo l’Inps sono solo 10le imprese agricole che risultano iscritte alla Rete del Lavoro agricolo di qualità, ovvero le imprese che fanno regolari contratti di lavoro, pagano in base alle tabelle ufficiali e fanno lavorare i loro dipendenti solo per le ore consentite.

Teodoro De Maria, proprietario di diversi ettari di terreno ed ex assessore di Rosarno punta il dito verso uno dei suoi alberi: “Le vedi le clementine? Anche se me le dovessero raccogliere gratis direi di no perché non avrei a chi venderle. È vero che c’è chi li sfrutta, ma il ghetto di San Ferdinando non conviene a nessuno. La questione è culturale. Alcuni di loro potrebbero affittare una casa come fanno i romeni e i bulgari. Non lo fanno perché è il loro modo di vivere”.

“Vogliono una lamiera per stare come i cani”. Mico Cananzi è proprietario di 7 ettari alcuni dei quali proprio accanto alla tendopoli: “Ho votato Salvini perché ha detto che mi toglie i migranti. Utilizzano i miei campi come se fossero bagni. Sono maiali. Tra un po’ di giorni li puoi vedere nudi che si lavano. Non lo dico per razzismo ma come facciamo ad aiutarli?”. L’agricoltore si agita. “Sono dei lordazzi. Quando arriva ‘sto Salvini con le ruspe? Lo abbiamo votato perché ci ha promesso di togliere questo marciume. Se non lo fa, la Lega qui è finita”. Alle elezioni politiche il partito del ministro dell’Interno ha rastrellato il 13% dei voti in uno dei territori a più alta densità mafiosa. “Ma quale ‘ndrangheta?”, risponde seccato Cananzi. “Il primo problema sono loro! Sono loro che portano la droga qui”.

Mentre parla, un migrante in bicicletta gli passa accanto. Indossa abiti “taroccati”, comprati con pochi euro in uno dei tanti mercatini di roba usata all’interno della tendopoli: “Lo vedi quel nero come è vestito? Viene qui a raccogliere le arance con le scarpe Paciotti. Dove prendono i soldi? Adesso vogliono dargli metà delle case popolari che hanno costruito a Rosarno. Qualcuno li butterà giù quei palazzi, altro che. Devono cacciarli dalla baraccopoli e basta. Se Salvini non lo fa, siamo pronti a sgomberarli noi”.

Le nuove baracche piano piano si mangeranno quel poco di nero rimasto a terra dai resti dell’incendio di sabato scorso. Quando anche sull’ultimo metro quadrato ci sarà una tenda, nessuno parlerà più di Moussa Ba, senegalese ucciso dalle fiamme. Come è già successo per Surawa, e prima ancora di lui, per Becky, morti carbonizzati. Continuerà la raccolta delle arance. Ma finiranno le passerelle dei politici e dei giornalisti. Almeno fino al prossimo rogo. Almeno fino al prossimo sangue.

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