Era un prerequisito. Ora l’onestà diventi programma politico

30 Aprile 2017

Tutti ripetono che l’onestà in politica è un semplice prerequisito. Secondo questo punto di vista, ogni tentativo di trasformare l’onestà in programma di governo è destinato a fallire. Anche perché in qualsiasi maggioranza è inevitabile che prima o poi saltino fuori delle mele marce. E che quindi i sedicenti onesti finiscano per pagare conseguenze pesanti in termini di consenso elettorale. “Nel fare a gara a fare il puro troverai sempre uno più puro che ti epura”, diceva molti anni fa il socialista Pietro Nenni. Il ragionamento ha un suo senso. Ma, come spesso accade, tra coloro i quali lo articolano sono in molti quelli che nascondono altri fini.

In qualsiasi democrazia matura sarebbe effettivamente ridicolo proporsi politicamente dicendo: noi saremo onesti. Lì il prerequisito in genere funziona. Quando in Germania o in Inghilterra si scopre che qualcuno viola le regole (non necessariamente penali) quel qualcuno viene messo da parte: o dal suo partito o dagli elettori. Non tanto per senso etico o morale, ma per convenienza. La domanda che un cittadino si fa è semplice: quale garanzia ho che questo Tizio si comporterà bene quando dovrà decidere di spendere i soldi delle mie tasse? Si spiega così il risultato elettorale di François Fillon, dato dai sondaggi sicuro al ballottaggio finché le storie delle consulenze pagate ai figli e alla moglie non lo hanno reso inaffidabile agli occhi di molti francesi.

L’Italia però non è la Francia e nemmeno la Germania o l’Inghilterra. Qui, come ha chiarito la scorsa settimana l’ex presidente della Anm, Piercamillo Davigo, le opere pubbliche costano in media il 30 per cento in più del dovuto a causa della corruzione. Molte classifiche ci mettono agli ultimi posti in Europa in fatto di malaffare politico; e il nostro caso di export di maggior successo si chiama mafia. Cosa Nostra, Camorra e ’Ndrangheta sono ovunque nel mondo e contribuiscono in maniera decisiva alla nostra pessima immagine internazionale. Il risultato è che il Paese di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non riesce mai a scrollarsi di dosso la sua (vecchia?) fama di nazione corrotta e mafiosa.

Ma non basta. Perché se chi è pro tempore al governo, pur tra qualche mugugno, è sempre disposto ad assecondare ordini o raccomandazioni provenienti da Bruxelles in materia economica, tutto cambia quando si parla di mazzette e affini. Lo scorso febbraio, la Commissione europea ha licenziato un corposo rapporto sugli squilibri italiani. Ha puntato l’indice contro la prescrizione che ostacola la lotta alla corruzione, i conflitti d’interessi, i collegamenti con le associazioni criminali, la mancanza di giudici e gli appalti pubblici definiti come “un settore a rischio“. La risposta è stata solo il silenzio.

Il ministero del Tesoro, con un comunicato pubblicato sul suo sito, ha ricordato solo la parte del documento dedicata ai conti pubblici. Così Pier Carlo Padoan ci ha parlato di nuovo del problema delle sofferenze bancarie e di come sia necessario implementare la sharing economy, ma ha ignorato tutto il resto. La scena si è poi ripetuta durante la campagna per le primarie del Pd. Ogni volta in cui si è dibattuto di etica e di giustizia lo si è fatto per discutere se davvero un magistrato in aspettativa avesse il diritto o meno di candidarsi a segretario del partito. Tema certamente importante, ma decisamente poco centrale. Ecco perché alla fine, un prerequisito come l’onestà in Italia può davvero diventare un programma politico. E se venisse attuato solo al 40 per cento sarebbe abbastanza per esserne felici.

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