I numeri dell’intelligenza artificiale non raccontano una storia così apocalittica

La pressione su ognuno di noi è reale. Ma per la prima volta abbiamo anche strumenti per ripensare il lavoro, non solo subirlo
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Le Monde conta i caduti. Banche, assicurazioni, informatica: i settori che per primi hanno abbracciato l’intelligenza artificiale sono gli stessi che per primi ne pagano il prezzo in carne umana. Oltre 130.000 posti nei piani di ristrutturazione che citano l’AI nel 2025. Un rapporto britannico parla di tre milioni di posti a rischio nel Regno Unito entro il 2035.

Eppure i numeri, a guardarli bene, raccontano una storia meno apocalittica. Meno dell’1% delle competenze lavorative è oggi pienamente automatizzabile. Il resto si trasforma. La maggioranza delle aziende non vede ancora ritorni misurabili dai progetti di intelligenza artificiale. I guadagni di produttività stimati per il prossimo decennio? Decimali.

Allora perché questa paura così viscerale? Forse non è il lavoro in sé. È lo status, la routine, l’identità professionale: tutte cose che avevamo cucito addosso al badge aziendale.

Raoul Vaneigem, in “Noi che desideriamo senza fine”, scrive che gli uomini hanno rinunciato a vivere per assicurare la sopravvivenza di un’economia. Generazioni intere hanno barattato il tempo con il denaro, il senso con la sicurezza, il desiderio con il dovere. E ora che quel baratto vacilla, ci scopriamo nudi. Il paradosso è tutto qui. Ci angosciamo per la perdita di qualcosa che ci era già stato sottratto. Piangiamo catene che scambiavamo per radici.

Stiamo entrando in una costellazione di patti del lavoro: resta l’idea della carriera lineare e dell’identità legata al badge, ma si affianca sempre più un patto digitale a mosaico, fatto di attività diverse che ciascuno ricompone nella propria vita, spesso assistite dall’AI. Non è un bivio: è un campo di forme che si sovrappongono. La grammatica del passato si consuma; quella nuova non è ancora scritta. E per non trasformare la libertà in precarietà servono regole comuni: tutele, formazione continua, diritti portabili e tempi di vita difesi. Finora abbiamo saputo produrre merci che non bastano più. La prossima fase potrebbe produrre senso, se impariamo a nominare ciò che desideriamo.

La pressione su ognuno di noi è reale. Ma per la prima volta abbiamo anche strumenti per ripensare il lavoro, non solo subirlo.

C’è una ribellione sotterranea che cova sotto la superficie delle statistiche. Un rifiuto che non trova ancora parole ma che pulsa ovunque: nelle dimissioni silenziose, nella ricerca di significato, nella domanda che tutti si fanno e pochi osano pronunciare. Davvero devo passare così il mio unico tempo sulla Terra?

La tecnologia da sola non basta, il mercato non si corregge da solo. Servono istituzioni che negoziano, contratti che tutelano, formazione che non sia a carico di chi è già fragile. Ma soprattutto serve quello che gli umani hanno sempre fatto nei passaggi d’epoca: studiare, capire, adattarsi. Non per difendere il vecchio mondo, ma per costruirne uno dove la vita non sia più merce di scambio.

È come se fossimo tutti su una nave che ha già salpato. Non l’abbiamo deciso noi, ma siamo in mare aperto. Colombo credeva di andare alle Indie. Finì in America. Anche noi crediamo di sapere dove ci porta questa transizione. Probabilmente ci sbagliamo. Ma senza una mappa per orientarci, rischiamo di attraversare il cambiamento senza capirlo.

La mappa la costruisci sul campo: nei luoghi di lavoro, nei conflitti quotidiani, negli errori che insegnano. La costruisci restando curiosi, come hanno fatto tutti quelli che sono venuti prima di noi e hanno attraversato rivoluzioni più grandi di questa.

Desiderare senza fine. Non è ingenuità. È l’unica forma di realismo che ci resta.

L’Ue bellicista coi tedeschi in prima fila: così si è tradita la missione dei padri fondatori

La ricetta per la pace passa per il riarmo, resistenza ad oltranza e retorica bellicosa, a costo di mettere in ginocchio economia e stato sociale. Lo sa bene anche quel volpone di Merz
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E’ il 14 giugno del 1940 e le truppe del Terzo Reich sfilano in trionfo sugli Champs-Élysées. Nei cinegiornali dell’epoca i francesi piangono lacrime di disperazione. Per sottolineare l’umiliazione, i tedeschi obbligano la delegazione francese a firmare l’armistizio che ufficializzerà l’occupazione nazista della Francia in quello stesso vagone ferroviario del maresciallo Foch in cui, nel 1918, era stato firmato l’armistizio di Compiègne a conclusione della Prima Guerra Mondiale. Poi, giusto perché da buoni tedeschi sono metodici, fanno saltare in aria sia il vagone, sia il monumento a Foch.

Il delirio di onnipotenza nazista avrebbe continuato a mietere vittime e mangiarsi territori ancora per un paio d’anni, prima che le sorti della guerra cominciassero ad invertirsi portando la Germania al collasso.

Ciononostante, già nel 1941 Spinelli, Rossi e Colorni redigono il Manifesto di Ventotene che, qualsiasi cosa se ne pensi, è la visione di un’Europa federale fondata sulla pace, di cui era previsto facessero parte anche i tedeschi: proprio quei tedeschi ai cui ordini rispondeva il regime fascista che li aveva mandati al confino a Ventotene.

Pochi anni dopo, nel 1950 – la guerra è appena finita, c’è stato il processo di Norimberga e l’Europa sta vivendo il trauma di scoprire una dopo l’altra tutte le atrocità perpetrate dai nazisti – Robert Schumann, ministro degli Esteri francese, tiene il discorso che passerà alla storia come Dichiarazione Schumann in cui auspica la creazione di comunità europee di scopo (la prima sarà quella per il carbone e l’acciaio) che consentano ai paesi europei di collaborare e scongiurino il rischio del riproporsi di conflitti armati: mettere insieme le risorse per beneficiarne tutti ed in tal modo rendere impossibile ed impensabile nuove guerre – soprattutto tra tedeschi e francesi.

Nel 1957 è la volta dei trattati di Roma con cui nasce la Comunità Economica Europea, antenata diretta dell’Unione Europea. Sempre con i tedeschi, ça va sans dire.

Com’è possibile che i grandi padri nobili dell’Europa come Spinelli e Schumann, De Gasperi e Monnet, dopo aver visto ed in alcuni casi vissuto l’orrore della guerra – e più in particolare quello perpetrato dai nazifascisti – in prima persona, invece di correre al riarmo in difesa dalla minaccia germanica, invece di proclamare invettive contro il popolo tedesco, invece di estrometterlo dal salotto buono della politica internazionale e di sottoporlo ad embargo commerciale lo abbiano accolto a braccia aperte, e coinvolto come membro fondatore delle comunità europee? Dopo che nel giro di pochi decenni aveva scatenato due guerre mondiali?! Dopo che aveva occupato quasi l’intera Europa continentale?

E’ evidente che non avevano capito nulla! Invece di fare le anime belle, innalzandosi oltre le logiche fratricide, avrebbero dovuto seguire l’esempio preclaro di Von der Leyen & co.: col nemico non si tratta. La ricetta per la pace passa per il riarmo, resistenza ad oltranza e retorica bellicosa – anche a costo di mettere in ginocchio l’economia e lo stato sociale dei paesi europei. Lo sa bene anche quel volpone di Friedrich Merz, che dopo aver inanellato una serie di gaffes assortite, ha pensato bene di reintrodurre la leva obbligatoria, farneticare dell’ “esercito più grande d’Europa” (does that ring a bell??) ed insistere strenuamente (per poi restare sonoramente trombato) per espropriare i beni russi sequestrati dall’inizio della guerra destinandoli all’Ucraina, seccando così, en passant, un’altra di quelle cosucce di cui ancora potevamo andare fieri in Europa – lo stato di diritto.

Meno male che ci sono i diplomatici a raffreddare gli animi: ci pensa l’alta (forse di statura?) rappresentante per la politica estera Kaja Kallas che, dopo aver dimostrato di non sapere chi abbia vinto la Seconda guerra mondiale (d’altra parte lei mica è del mestiere) e aver sostenuto che la Russia non sia mai stata attaccata o invasa da alcun altro stato (mice è una storica, lei), ha cercato di calmare le acque dichiarando che “la Russia ci odia e vuole distruggerci”. Nientemeno.

Ecco, fino a qualche anno fa, quando si sentiva criticare l’Europa per scarso dinamismo, burocrazia ipertrofica, frammentarietà delle politiche, si poteva ancora ribattere: ok, ma abbiamo lo stato di diritto, abbiamo lo stato sociale e siamo stati in grado di garantire la pace in un continente storicamente dilaniato dalle guerre. Ora che i pagliacci si sono impossessati del circo, non ci resta più neanche quello.

“L’esercito israeliano ha sparato e ferito un peacekeeper dell’Unifil in Libano”

Ad annunciarlo in una nota è la forza di pace delle Nazioni Unite Unifil: "Rinnoviamo la richiesta all’Idf di cessare il comportamento aggressivo e gli attacchi contro o nei pressi di chi lavora per la pace"
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La forza di pace delle Nazioni Unite Unifil ha denunciato che l’esercito israeliano ha aperto il fuoco questa mattina nei pressi della Linea Blu, che separa il Libano da Israele e dalle alture del Golan. Come si legge su il The Times of Israel, negli attacchi è rimasto ferito un peacekeeper.

Il fuoco delle truppe dell’Idf ha colpito una pattuglia Unifl che stava ispezionando un posto di blocco nel villaggio di Bastarra. “Anche se non ci sono stati danni a veicoli Unifil, il rumore degli spari e l’esplosione hanno ferito leggermente un peacekeeper, che ha riportato una commozione cerebrale all’orecchio”, si legge nella nota. Inoltre, continuano, nel villaggio di Kfar Shouba, “un’altra pattuglia che stava conducendo un’operazione di routine, ha riportato colpi di mitragliatrice provenienti da Israele nell’immediata prossimità alla loro posizione”. E questo nonostante l’Unifil “avesse informato l’Idf delle sue attività in queste aree in anticipo, seguendo le usuali procedure per i pattugliamenti nelle aree sensibili vicine alla Linea Blu”, ovvero la linea di demarcazione tra Libano ed Israele resa pubblica dall’Onu nel giugno del 2000. “Attacchi contro o vicini ai peacekeeper sono gravi violazioni della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1701 – conclude la nota – noi rinnoviamo la richiesta all’Idf di cessare il comportamento aggressivo e gli attacchi contro o nei pressi dei peacekeeper che lavorano per la pace e la stabilità lungo la Linea Blu”.

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Bimbo di un anno gravemente ustionato in casa: trasferito in elisoccorso a Napoli

L'episodio è avvenuto a Catanzaro intorno a mezzogiorno. A causa del peggiorare delle condizioni cliniche è stato necessario il trasferimento presso il Centro grandi ustionati
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A Catanzaro un bambino di un anno è rimasto gravemente ustionato mentre si trovava in casa. L’episodio si è verificato il 26 dicembre, intorno a mezzogiorno. A causa delle ferite riportate su tutto il corpo, il piccolo, dopo essere stato soccorso dai sanitari, è stato trasportato al Pronto soccorso dell’ospedale Pugliese, dove è stato ricoverato nel reparto di Rianimazione.

In seguito, la direzione sanitaria dell’ospedale, considerato il peggiorare delle condizioni cliniche, ha deciso il trasferimento d’urgenza in elisoccorso al Centro Grandi Ustionati di Napoli, dove si trova attualmente in prognosi riservata. Indagini sono in corso per ricostruire la dinamica dell’accaduto.

Mosca espulsa dalla Corte Ue: magnate russo arrestato a Malpensa e scarcerato dopo una notte. E’ accusato di una frode da 110 milioni

Victor Khoroshavtsev era stato fermato su segnalazione dell'Interpol per una presunta truffa milionaria sui fondi pensione. Era già stato arrestato in Spagna e rimesso in libertà dalle autorità iberiche per lo stesso motivo
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Arrestato e scarcerato dopo una sola notte. Victor Khoroshavtsev, magnate russo del petrolio ed ex parlamentare, era stato fermato all’alba del giorno di Natale in un albergo nei pressi dell’aeroporto di Malpensa perché su di lui pendeva un mandato di cattura internazionale. Ma dopo una notte nel carcere di Busto Arsizio il 73enne è stato scarcercato perché la cooperazione giudiziaria con il suo paese, la Russia, è stata sospesa dopo l’inizio della guerra in Ucraina.

Khoroshavtsev era stato arrestato dagli agenti del commissariato di Polizia di Gallarate, in provincia di Varese, su segnalazione dell’Interpol. L’uomo si trovava in un albergo di Somma Lombardo, il centro del varesotto molto vicino all’aeroporto: quando l’imprenditore si è registrato in hotel dopo l’arrivo in Italia sono scattatati gli alert sui terminali delle forze di polizia. In Italia il magnate era arrivato per trascorrere le festività natalizie con la figlia che vive a Milano.

Su Khoroshavtsev pende un mandato di cattura internazionale spiccato dalle autorità russe. In patria il magnate è accusato di una frode da oltre 110 milioni di euro, un capitale che secondo le autorità della federazione russa il 73enne avrebbe sottratto dai fondi pensione e avrebbe poi portato all’estero. Dopo la notte in carcere a Busto Arsizio, questa mattina la decisione della Corte d’Appello di Milano di rimetterlo in libertà.

“Dopo la liberazione mi auguro che l’estradizione diventi a questo punto improcedibile”, ha commentato il legale che assiste l’ex parlamentare, l’avvocato Alexandro Maria Tirelli, confermando la decisione della Corte d’Appello e sottolineando che allo stato non ci sono provvedimenti di custodia cautelare nei suoi confronti. L’uomo secondo il legale è a rischio ritorsioni in patria, ed ora è dunque libero di muoversi e spostarsi senza alcuna restrizione. Pur non avendo ancora visto le motivazioni della decisione, l’avvocato ha sostenuto che i giudici hanno fatto riferimento al fatto che il mandato “è giuridicamente non applicabile”, in quanto la Federazione Russa è stata espulsa dal Consiglio d’Europa dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo, con sospensione della cooperazione giudiziaria ordinaria.

Sempre il legale Tirelli ha spiegato che Khoroshavtsev – che ha anche passaporto israeliano – era stato già arrestato in Spagna, sempre su mandato internazionale russo. Lì il 73enne sarebbe proprietario, attraverso una società offshore, di un hotel di lusso a Marbella, a cui si aggiungono interessi anche in Croazia e negli Emirati Arabi. Anche in Spagna l’uomo era immediatamente stato rimesso in libertà sempre per l’esclusione della Russia dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, anche se il procedimento per l’estradizione è ancora aperto.

Tre donne ferite con un coltello nella metro di Parigi: arrestato l’aggressore

Gli attacchi sono avvenuti nelle stazioni Arts et Métiers, République e Opéra, nel cuore di Parigi, "tra le 16.15 e le 16.45"
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Un uomo armato di coltello ha aggredito tre donne sulla linea 3 della metropolitana di Parigi. Dopo la fuga, il sospettato è stato arrestato nella sua abitazione. Secondo quanto riferito dalla società di trasporti, gli attacchi sono avvenuti nelle stazioni Arts et Métiers, République e Opéra, “tra le 16.15 e le 16.45”.

Gli investigatori per il momento escludono si tratti di terrorismo. L’aggressore, secondo quanto riportano i media francesi, sarebbe un individuo mentalmente instabile. L’uomo si era dato alla fuga subito dopo gli attacchi ed è stato fermato in casa a Sarcelles, a nord della capitale francese. Le vittime non sarebbero in pericolo di vita e le loro ferite sono superficiali. Una donna è stata colpita a una gamba ed un’altra alla schiena.

Il sospettato, descritto come “magro, di origine africana e con indosso un cappotto color cachi “, ha prima aggredito una donna con un coltello alla stazione République, per poi proseguire fino alle stazioni Arts et Métiers e Opéra. È poi fuggito lungo la linea 8, prima di essere arrestato poche ore dopo, rintracciato grazie alle immagini della videosorveglianza e alla geolocalizzazione del cellulare.

“Quando era già tutto a posto sono andato in America a rompere il braccio e rimetterlo diritto”: Marquez racconta la sua rinascita

Il campione del mondo della MotoGp racconta i due momenti clou che lo hanno portato a riprendersi il titolo dopo 6 anni
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Tornare campione del mondo a 32 anni, sei dopo l’ultima volta, avendo nel mezzo affrontato quattro operazioni e un “buco profondo e nero”. Il 2025 è stato l’anno in cui Marc Marquez si è ripreso la MotoGp, dominando il campionato in sella alla Ducati. “La sfida più difficile della mia carriera sportiva, cioè uscire da quel buco profondo e nero, l’ho superata, e l’ho fatto con un team incredibile: la Ducati Factory”, racconta Marquez in un’intervista alla Gazzetta dello Sport.

L’inizio dell’incubo ha una data precisa: 19 luglio 2020, Gp di Jerez. Una caduta terribile e una frattura all’omero destro da cui lo spagnolo non riuscirà mai a riprendersi definitivamente. Marquez però è riuscito a tornare a vincere, grazie a due scelte ben precise. La prima è stata ovviamente quella di lasciare la Honda. Il primo momento chiave della rinascita, spiega lui stesso, “è stato il GP del Giappone 2023: la settimana successiva ho preso la decisione di lasciare il team che mi aveva dato tutto, la Honda, per andare al team Gresini. Nadia Padovani mi aveva aspettato fino a quel punto, quando mancavano quattro GP alla fine: di solito un team non aspetta così. Quello è stato il punto numero uno, sportivamente parlando“.

Il secondo momento di svolta è meno scontato. Ed è temporalmente precedente: ovvero la scelta, annunciata durante il Gp del Mugello 2022, di sottoporsi a una quarta operazione chirurgica. Marquez racconta: “Quando era già tutto a posto sono andato in America a rompere il braccio e rimetterlo diritto. Quella è stata una decisione difficile, perché per fare una vita normale poteva andare bene, era un braccio che permetteva di fare le cose di ogni giorno, ma per guidare una moto no. Così ho preso quel rischio“.

Il ricordo torna alle parole di Marquez di tre anni e mezzo fa: “Avrei fatto di tutto per evitare l’operazione, ma è l’unico modo per avere un pieno recupero”. Il tempo gli ha dato ragione. Marquez è di nuovo campione del mondo, anche se il paradosso è che chiuderà il 2025 pensando a un’altra riabilitazione, dopo l’infortunio alla spalla: “Sono già dodici settimane, quasi tre mesi: posso iniziare ad andare in moto, i dottori hanno dato l’ok e così ho ricominciato con cautela. Muscolarmente mi sono già ripreso abbastanza, la spalla ancora non lavora in modo perfetto, ma abbiamo un mese e mezzo fino ai test in Malesia di febbraio”. Marquez non si vuole fermare: “Ora stiamo lavorando di nuovo per lottare per il titolo iridato 2026“.

Napoli, cadono calcinacci da un cornicione in via Toledo: ferite due turiste

Le due giovani 20enni sono state subito trasportate nel vicino ospedale dei Pellegrini: la prima ha riportato una ferita lacero contusa al cuoio capelluto, la seconda è stata colpita da alcune schegge
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Due turiste provenienti dalla provincia di Roma, di 22 e 25 anni, sono rimaste ferite in modo lieve da calcinacci staccatisi all’improvviso da un cornicione in via Toledo, nel cuore di Napoli, affollatissima di visitatori e cittadini nel giorno di Santo Stefano. Le due giovani sono state subito trasportate nel vicino ospedale dei Pellegrini: la 22enne ha riportato una ferita lacero contusa al cuoio capelluto, e verrà sottoposta a scopo precauzionale ad una Tac; la 25enne è stata colpita da alcune schegge. Nessuna delle due è in condizioni preoccupanti.

L’episodio ha provocato paura tra i passanti che durante il pomeriggio percorrevano la strada. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco, che hanno messo in sicurezza il cornicione, con la Polizia di Stato e la Polizia municipale. “Siamo di fronte a una tragedia sfiorata – commenta il deputato di Avs Francesco Emilio Borrelli – e purtroppo via Toledo non è nuova a episodi simili, quando nel 2014 il giovane Salvatore Giordano perse la vita a causa del distacco di un cornicione dalla Galleria Umberto. È indispensabile provvedere immediatamente alla messa in sicurezza dei palazzi. Questa strada è già diventata un vero e proprio campo minato a causa della pavimentazione rotta e sconnessa, che provoca continue cadute, e già in passato ci sono stati distacchi di cornicioni con conseguenze ben più gravi. Chi non provvede alla manutenzione e mette a rischio l’incolumità delle persone non può restare impunito”.

Siria, 8 morti nell’attentato alla moschea di Homs. Bombe e imboscate: la strategia della tensione degli uomini di Assad

Quello nel quartiere a maggioranza alawita di Wadi al-Dahab è solo l'ultimo attacco nel Paese dove dietro ogni esplosione, attentato o imboscata c’è qualcuno che cerca un posto al sole di Damasco
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Un boato, fumo e sangue. A terra 8 morti e 21 feriti. Sono queste le vittime provocate dall’attacco terroristico che in Siria ha colpito la moschea Imam Ali Bin Abi Talib a Homs, nel quartiere a maggioranza alawita di Wadi al-Dahab. Per il ministro degli esteri siriano, Asaad Al Shibani, è l’ennesimo “tentativo disperato” di destabilizzare il Paese. E ha promesso che i responsabili saranno puniti. Ma è in atto una strategia della tensione, con nuovi e vecchi attori in corsa per il potere.

Dopo ore di silenzio, su telegram il gruppo Saraya Ansar al Sunnah ha rivendicato la paternità dell’attentato che ha colpito il luogo di culto Alawita. Negli ultimi mesi questo gruppo terrorista siriano, fondato da Abu Aisha al Shami, ha rivendicato anche altri attentati. Il primo è del giugno scorso. Ad essere colpita fu la chiesa di Mar Elias, in centro a Damasco: 30 morti e 50 feriti.

Nel maggio scorso, il giornale libanese An Nahar era riuscito ad entrare in contatto con al Shami. “Il gruppo è nato, a Idlib, prima della caduta del regime siriano”, aveva dichiarato il leader della milizia fondamentalista. Aggiungendo di aver fatto parte di “Hayath Tahrir al Sham” milizia radicale fondata da Abu Mohamad al Jolani, nome di battaglia del presidente siriano Ahmad al Sharaa. Ma che ora “al Jolani è un infedele”, concludendo di non avere “nessun legame con lo Stato Islamico in Siria”.

Ma la galassia jihadista nel paese è un buco nero, come ci hanno insegnato gli ultimi quattordici anni di guerra civile. Un esempio: nell’ottobre scorso, una indagine della Cnn ha fatto luce sulla sorte del giornalsita Austin Tice, dal 2012 dato nelle mani di un gruppo fondamentalista. Era stato invece incarcerato dagli uomini del servizio segreto siriano che avevano poi inscenato il sequestro ad opera dei fondamentalisti. Tice venne infine giustiziano dai servizi siriani, secondo quanto rivelato a Clarissa Ward, corrispondente della Cnn, da Bassam al Hassan, vicino all’ex presidente siriano Bashar al Assad.

Proprio gli ex uomini fedeli a Assad, secondo quanto riportano diverse inchieste, starebbero provando a finanziare una insurrezione sulla costa siriana. Non più per riportare Bashar al Assad al potere, ma per cercare una alternativa. A versare milioni di dollari, in stipendi e finanziamenti per l’acquisto di armi, ci starebbe pensando Rami Makhlouf, cugino di Assad, e per decenni considerato il Tycoon siriano, con interessi miliardari fra Damasco, Dubai e capitali europee. Fuggito dal paese nel dicembre scorso, secondo chi gli è vicino – scrive il New York Times – oggi crede di essere il messia degli alawiti e di essere in possesso di un testo mistico che gi farebbe presagire gli eventi. Sta di fatto che sul campo, a coordinare la riorganizzazione del fronte armato, volando da Mosca a Beirut – conducendo incontri in luoghi sicuri nella costa siriana -, sarebbero Suheil Hassan, soprannominato “il tigre” per la sua ferocia in battaglia, un tempo a capo delle forze speciali, e Ghiath Dalla, ex membro della guardia repubblicana.

Proprio la costa è diventata il nodo cardine per la costruzione della Siria di domani. A cominciare dall’indagine per far luce sulle responsabilità della morte di oltre 1500 civili alawiti uccisi nel marzo scorso in una operazione governativa per – formalmente – reprimere e arrestare membri del regime deposto. D’allora le imboscate contro gli uomini fedeli al nuovo governo di Damasco sono continue, mentre si tenta di lavorare nell’opera di riconciliazione fra sunniti e alawiti, questi ultimi visti come collusi con il vecchio regime. Solo due giorni fa, tre ufficiali vicini ad Assad sono stati uccisi a Jable, sulla costa, durante uno scontro a fuoco con le forze fedeli al governo di Damasco.

Mentre nell’ultima settimana le milizie curde delle Forze Democratiche Siriane, braccio armato del PKK in Siria, un tempo finanziate da Washighton, composte anche da combattenti stranieri – italiani inclusi -, hanno bomabardato i sobborghi di Aleppo. Scaricati da Trump, ora interessato a Sharaa, hanno aumentato la pressione contro l’esercito siriano alla ricerca di un nuovo accordo più vantaggioso, mentre a fine anno scadrà l’intesa firmata nel marzo scorso proprio fra Damasco e i curdi volta a una integrazione di questi ultimi nell’esercito del Paese. Nella Siria di oggi, dietro ogni esplosione, attentato o imboscata c’è qualcuno che cerca un posto al sole a Damasco.

“Ciao zio, prendi come esempio i miei progressi”. “Fuori c’è una vita che ci aspetta”. I messaggi d’auguri via radio delle famiglie ai detenuti

I messaggi sono andati in onda su Radio Popolare la mattina del 25 dicembre durante la puntata Fuori di cella, condotta da Claudio Agostoni
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Ciao zio Abram, buon Natale. Sono tuo nipote, prendimi come esempio: hanno detto che con l’autismo non avrei mai parlato e camminato bene, oggi non cammino ma corro; non parlo una lingua ma tre. Ti aspetto fuori per farti vedere i miei progressi”. È uno delle decine di messaggi che, la mattina del 25 dicembre, i famigliari dei detenuti delle carceri di Lodi, Bollate e Rebibbia hanno inviato ai loro cari grazie a Radio Popolare. L’iniziativa promossa dai volontari delle tre strutture detentive che nei giorni precedenti hanno registrato gli auguri di chi sta in cella, ha emozionato i parenti ma anche il pubblico della speciale trasmissione “Fuori di cella”. In studio lo storico conduttore Claudio Agostoni che ha raccolto le voci di figli, mogli, padri, amici, fidanzate, nonni, intervallandole con canzoni in ogni lingua dedicate a chi è in prigione.

Bebe è stata tra le prime a chiamare e a “parlare” a Clarencito: “Buon Natale a tutti i detenuti ma soprattutto alla persona più importante della mia vita. È il primo anno che non sei con me ma ti porto dentro ogni pensiero, ogni silenzio, ogni canzone. Tutto parla di te. Niente e nessuno può dividere due cuori che si amano. Nemmeno la distanza, il tempo, queste mura possono separarci. So che non è facile. Lotta con unghie e denti, c’è una vita che ci sta aspettando”.

Parole spezzate dalle lacrime come quelle di Liliana per Ukas: “Auguri a mio marito. Ti amo da morire. Sei mio marito bello”. La nonna di Gabriel che per le feste non ce l’ha fatta a raggiungerlo è riuscita ad essere vicina al nipote con la radio: “Sono anziana ma ogni tanto vado a trovarlo…”. In un italiano stentato una donna albanese ha voluto mandare un bacio al suo fidanzato in prigione a Lodi mentre Loris ha dedicato un brano dei “Modà” al fratello aggiungendo: “Ci vediamo a casa sempre e comunque”.

Anche Massimo, da poco uscito dalla casa circondariale di via Cagnola, non ha dimenticato i compagni: “Natale è difficile lì; mi auguro che lo passiate in serenità con i compagni di cella. Un saluto in particolare a Ivano, non fare il birichino e mantieniti sereno. Ora sono fuori ma anche qui è dura, bisogna farsi forza. Buona speranza di soluzioni per la vita”.

Tante le chiamate e i messaggi per Jonita ma anche per Gabriel: “Ci sono tante cose che vorremmo dirti: recupereremo il tempo perso insieme”. In numerosi hanno contribuito a questa singolare iniziativa: in primis le direzioni del carcere e le aree trattamentali, gli agenti di polizia penitenziaria che hanno pubblicizzato il progetto ai colloqui e oltre quaranta persone che hanno inviato all’Arci “Ghezzi” di Lodi delle radioline a batteria affinché tutti i detenuti potessero ascoltare la trasmissione.

Durante l’ora e mezza in onda è intervenuto anche il presidente di “Antigone”, Patrizio Gonnella che ha ricordato il dramma del sovraffollamento e la situazione delle carceri in Italia più volte sottolineata – in questi giorni – anche dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella.