Il contributo

Autismo al femminile: donne invisibili cui viene negato (quasi) ogni diritto

Il convegno a Rimini - Luisa di Biagio, psicologa e lei stessa persona autistica, ci spiega perché giudici, forze dell’ordine, avvocati, ostetrici, ginecologi, non hanno idea di come funzioni la loro percezione

Di Luisa di Biagio
25 Aprile 2023

Si svolgerà il 28 e 29 aprile al Palacongressi di Rimini l’8° Convegno Internazionale Erickson “Autismo – Vite ad ampio spettro”, un evento per condividere idee e progetti e affrontare con competenza le sfide legate al mondo delle neurodiversità. Tra i vari interventi in programma, verrà approfondito il tema dell’autismo al femminile, finora poco studiato a causa della visione prevalentemente maschile del disturbo che è stata portata avanti negli anni. Luisa di Biagio, una delle relatrici, è una psicologa e una donna con autismo: le abbiamo chiesto di spiegarci le caratteristiche differenti dell’autismo femminile.


A poco più di tre anni dagli eventi che hanno stravolto vita e abitudini di tutti, con alcuni strumenti e percorsi il cui utilizzo si specializzato sensibilmente, siamo tutti ancora frastornati.

Il profilo medio della popolazione dei giovanissimi risulta quello che ha pagato il prezzo più alto in termini di serenità e benessere, ma anche tutte le persone con esigenze diverse, in particolare quelle determinate dall’autismo, si trovano, se possibile, in un mondo ancora meno inclusivo, escludendo i pochi settori di nicchia che si impegnano moltissimo pur non riuscendo in modo adeguato a esportare esempi e modelli.

E ancora una volta, il paradosso viene confermato e il sottogruppo maggiormente penalizzato è quello di chi ha maggiori competenze di adattamento.

Dovrebbe essere superata ampiamente la fase del “non sembri autistico/autistica”, del “quattro maschi per ogni femmina” e del “mio figlio sì che è autistico, non parla, non è come te che hai un autismo lieve”.

Invece per quello che appare come un crudele gioco del gatto col topo, questa resistenza del sistema di confronti dell’adattamento alla realtà della neurodiversità come naturale caratteristica della specie si manifesta con un vigore persino maggiore.

Come clinico non smetto di stupirmi ogni volta che mi imbatto in documenti di valutazione e diagnosi nei quali, con timbro e firma che inevitabilmente mi evocano i pennacchi di ottusi militari cantati da De Andrè, si sentenzia che la Signora non rientrerebbe nel quando diagnostico perché gesticola adeguatamente, perché ha una relazione stabile, figli e a volte persino un lavoro. Oppure che la bambina o la ragazza presenta valori nelle sottoscale della WISC che hanno un gap tale da “non poter essere interpretati‚.

Ma gli aspetti che rattristano maggiormente sono la resistenza a invio per la valutazione di ogni paziente con DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare), di ogni assistito che non si identifica nel genere biologico di assegnazione, di ogni fruitrice di cure specialistiche in ambito di ostetricia e ginecologia e di ogni persona alla quale viene prescritta una terapia farmacologica.

Mentre, come afferma Francesca Happè, “più conosciamo l’autismo e più lo riconosciamo”, sembra che sia nel mondo accademico che in ambito di assistenza sanitaria, inserimento lavorativo, accessibilità, possibilità di accesso alla cultura, struttura di percorsi di transizione di genere e in ogni CAV (Centro Anti Violenza), l’autismo non venga considerato se non raramente e sempre come estrema possibilità.

La confusione sull’utilizzo dei termini non aiuta, come pure, purtroppo, la comprensibilissima scelta di riservatezza della pletora di donne e ragazze, cis e transgender, che a seguito della diagnosi chiedono la riservatezza, lasciando esposti all’opinionista medio e anche al clinico o dell’educatore superficiale solo i profili con necessità di supporto, che nell’immaginario collettivo restano sempre e contro ogni evidenza a rappresentare l’intera condizione.

Un bilancio amaro dunque, che vede aumentare il numero di autistiche a cui viene negato ancora quasi ogni diritto.

Di cosa hanno bisogno oggi, le autistiche? Questa è la domanda che segue immediatamente l’altra, duplice, sull’esistenza e la proporzione della popolazione autistica femminile, e bypassa l’annosa litania delle innumerevoli sfumature attraverso le quali si esprime la competenza di adattamento di tutte le persone con caratteristiche che si collocano immediatamente e nettamente fuori dal profilo di tratti le cui manifestazioni sono influenzate da elementi di rigidità prettamente “maschili”, nella accezione biologica e neurologica del termine.

È interessantissimo, ad esempio, evidenziare come tutta la popolazione non binaria è collocabile in questo ambito, a prescindere dal genere biologico, e questo pone l’intera questione sotto una luce stimolante, straordinariamente nuova, come nuove sono queste consapevolezze.

L’esistenza delle persone autistiche, e si tende a “dimenticarlo” quando si cambia topic, resta, come restano le espressioni di adattamento di esse, eppure durante i percorsi di transizione a nessuno viene in mente di adattare la comunicazione a eventuali esigenze determinate dall’autismo.

Il numero di donne riconosciute autistiche, ovvero diagnosticate ufficialmente, tra quelle che si laureano, che si separano e lottano per i figli, tra quelle che subiscono violenza, che vengono erroneamente diagnosticate anoressiche, che partoriscono, che contraggono MST (Malattie Sessualmente Trasmissibili) aumenta, eppure giudici, forze dell’ordine, avvocati, ostetrici, ginecologi, non hanno idea di come funzioni la loro percezione, di quale sia il criterio di comunicazione più funzionale, di come garantire pari diritti, dignità e pari opportunità.

Alla ennesima richiesta da parte della Erickson di trattare nuovamente il tema come relatore per uno degli eventi più seguiti sul territorio nazionale, oggi rispondo che sì, è ancora necessario, ed è quindi particolarmente importante.

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