Nel Pd si attacca D’Alema senza affrontare il renzismo interno

4 Gennaio 2022

Ha fatto rumore il cenno di D’Alema alla “malattia” rappresentata dal renzismo che avrebbe ammorbato il Pd. Titolerei così la polemica: il nome e la cosa. A suo tempo giudicai criticamente tempi e modi della scissione del bersaniano Articolo 1 dal Pd. Si intuiva il destino da sinistra testimoniale e minoritaria. Non che non vi fossero motivi per lasciare il Pd. Anzi. Quella rottura, motivata con oscure ragioni politiciste (data del congresso, conferenza programmatica…), fu semmai tardiva.

Altra cosa, più convincente e comprensibile, sarebbe stata, in precedenza, una rottura operata su materie ben altrimenti robuste, politicamente e comunicativamente. Tipo il Jobs act, la “buona scuola”, la riforma costituzionale renziana. Che Renzi avesse operato un doppio deragliamento era già evidente da tempo: 1) la torsione centrista e lo schiacciamento sull’establishment di un “partito ministeriale” in origine concepito come sinistra di governo nel solco dell’Ulivo, 2) la riduzione a partito personale (il pdR) del “più partito tra i partiti” in quanto in rapporto con l’eredità dei partiti organizzati di massa della Prima Repubblica.

Fa riflettere la sdegnata reazione alla battuta di D’Alema di varie voci interne al Pd. Reazioni che, nominalisticamente, si accaniscono sulla parola “malattia”, esorcizzando la sostanza del problema. Reazioni classiche da coda di paglia. Domando: davvero chi ebbe responsabilità, attive o passive, nel corso renziano del Pd può permettersi di non interrogarsi sull’approdo presente del suo attore-protagonista? Cioè su un politico accreditato come leader della sinistra italiana che oggi, sempre più spesso, fa asse con la destra.

La cosa non getta una eloquente luce retrospettiva su quella stagione? Troppo facile raccontarsi e raccontare che il Renzi di oggi non avrebbe rapporto politico alcuno con il Renzi di ieri. A ben riflettere, l’esorcismo di molti esponenti Pd di oggi trova una spiegazione. La seguente: in quel tempo non breve, il confronto dentro il Pd fu pressoché assente. Gli organi del partito e i luoghi istituzionali di esso deputati a discutere erano silenziati. Renziani lo erano pressoché tutti. La sinistra interna – quella che oggi si racconta come tale – conosceva due sole varianti: quella di chi, muto politicamente, volentieri si accomodava su poltrone ministeriali o svolgeva con compiacenza sino al servilismo ruoli apicali nel partito (su tutte, la presidenza dell’assemblea spacciata per presidenza del partito) e quella di chi, con pose da intellettuale, si prestava a fare la parte dell’opposizione di sua maestà. Offrendo un apprezzato tocco… estetico.

Oppositori così erano perfettamente funzionali allo strapotere di Renzi. Del resto, tutti rammentano il brutale licenziamento di Letta da Palazzo Chigi, ma pochi ricordano che la sua causa prossima fu un deliberato del partito la cui primogenitura è attribuibile alla sedicente sinistra interna. Lui stesso, Renzi, non a caso, spesso ancora oggi e non a torto, fa memoria della legione degli zelanti supporter di allora poi precipitosamente convertitisi in detrattori. Faccio fatica a fare un solo nome – con l’eccezione di Bersani tuttavia a lungo trattenuto dal riflesso unitarista del partito-ditta di scuola comunista – cui riconoscere un ruolo di reale opposizione al tempo del Renzi regnante.

Posso comprendere che il suo ex portavoce rivendichi quella esperienza, ma sorprende la circostanza che altri si sottraggano a una franca discussione critica al riguardo. Di sicuro ciò non rappresenta un presupposto propizio alla costruzione, quanto mai necessaria e urgente, di una sinistra e di un centrosinistra larghi e nuovi nei quali un po’ tutti si mettano in discussione. Non si vogliono fare i conti con la torsione identitaria renziana comunque la si chiami? Allora ci si interroghi su tre questioncelle tipo: un major party del campo progressista inchiodato al 20%, il divorzio dai ceti popolari, l’abitudine di stare al potere non avendo vinto le elezioni.

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