Le carceri smettano di essere atenei della criminalità

Di Roberto Saviano
2 Dicembre 2020

Caro Marco, ho letto gli editoriali che hai scritto in questi giorni in risposta a quelli di Manconi, Veronesi e mio, che chiediamo al ministro Bonafede misure immediate per rendere le carceri luoghi sicuri (ora non lo sono) in tempo di pandemia.

Sono contento che il nostro digiuno di dialogo, nel senso pannelliano del termine, sia stato da te immediatamente colto. Si parla di carcere in questi giorni anche grazie a te, e questa cosa, nel nostro Paese, accade troppo poco spesso.

E allora questa opportunità di dialogo voglio coglierla fino in fondo, dunque accetto alcuni spunti critici e provo a tirarne fuori delle questioni sulle quali è per me importante avere la tua opinione.

Tu scrivi di essere contro la nostra ricostruzione che vedrebbe il carcere come luogo di contagio, e a sostegno della tua tesi elenchi cifre e statistiche, ma quello che mi ha colpito del tuo editoriale è questo passaggio: “È vero: (le carceri) sono ‘una tragedia nella tragedia’, ‘incivile e criminogena’ per la fatiscenza delle strutture, il sovraffollamento, la penuria di agenti ed educatori”.

La tua soluzione è nuova edilizia carceraria, se ne parla da anni ma senza che vi siano fondi per poter dare seguito alla proposta, suppongo questo perché alle dichiarazioni non seguono mai azioni concrete. Dunque ti chiedo – dato che tu non sei il Pd, ovvero il partito che all’art. 1 del proprio Statuto ha questa regola: “Non decidere mai oggi, quando puoi dire che deciderai domani, tanto lo sai che non lo farai mai” – cosa ne facciamo, nel frattempo, di queste vite? Perché sono vite, persone, non statistiche o numeri, quelli che abitano i luoghi che tu hai definito “tragedie nelle tragedie”. E le persone recluse sono legate, fuori, ad altre persone, alle loro famiglie che riterranno quindi lo Stato inadeguato, inutile, incivile, quando non nocivo e deleterio. E questo accade in contesti geografici, economici e sociali in cui la presenza dello Stato dovrebbe avere tutt’altre caratteristiche.

Hai da proporre una soluzione temporanea, prima che la costruzione delle nuove carceri (o l’incivilimento delle esistenti) abbia luogo?

E ti chiedo anche: quanta responsabilità ha invocare e perseverare nella cultura della carcerizzazione, nel senso di limitazione delle pene alternative, quando ci troviamo palesemente al cospetto di un sistema “incivile e criminogeno”?

Henry Woodcock, il 6 novembre, ha scritto sul tuo giornale un articolo importante, importante perché al centro del suo articolo c’era l’Uomo. L’Uomo condannato, l’Uomo recluso.

Ti chiedo: possiamo permetterci di attendere i tempi dell’edilizia carceraria prossima futura, forse, chissà, mentre Uomini sono reclusi in veri e propri incubatori criminali? Conosci la realtà delle carceri e conosci le regole che le dominano, conosci il welfare criminale che le condiziona; così come succede all’esterno, anche in carcere la disperazione genera affiliazione. E questo è un problema enorme, ineludibile e che ormai ha smesso di riguardare solo il Sud.

Come vedi, la situazione è molto complessa e i numeri dicono poco. Soprattutto se a via Arenula siede un ministro la cui cifra politica è il silenzio. Sei tu che hai sentito la necessità di rispondere ai nostri editoriali, ma il ministro tace. Credi davvero che in un altro Paese un ministro sarebbe rimasto al suo posto dopo i 13 morti delle rivolte di marzo? Il fatto che sia rimasto al suo posto mi fa pensare che quelle Persone, delle quali a stento conosciamo i nomi, siano per il ministro solo degli animali o poco più. Possiamo accontentarci di tutto questo solo perché, magari, chi c’era a via Arenula prima o non era meglio o ci piaceva meno?

Un’ultima questione riguarda il tuo proibizionismo. Vedi Marco, io credo sia evidente che le droghe siano proibite perché i proventi del narcotraffico sono l’enorme liquidità della quale la nostra economia (e non solo la nostra) ha necessità per sopravvivere allo stato di crisi permanente nella quale siamo calati da anni. Le cronache giudiziarie ci hanno spesso raccontato di aziende private che accantonavano fondi neri utilizzati poi per corrompere e alterare il mercato. Ecco Marco, credo che tu non abbia ben compreso che i proventi del narcotraffico sono i fondi neri della democrazia, e io che tutto questo lo studio e lo racconto da anni, non posso, in nome della lotta alle organizzazioni criminali, non pretendere a voce alta che le carceri smettano di essere, una volta per tutte, università del crimine (oggi un piccolo spacciatore in carcere può fare “carriera”, questo lo sappiamo, e non agendo, anzi temporeggiando e tacendo, lo permettiamo), per diventare luoghi in cui chi ha commesso un reato possa scontare la pena il cui scopo non è punire, ma recuperare l’individuo alla società.

Grazie per aver accolto questo mio commento.

La risposta del direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio

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