L'intervento

Montagne distrutte, torrenti deviati e costi in aumento: quando sciate fateci caso

Un nuovo impianto sciistico comporta sempre delle conseguenze: a partire dal disboscamento ai soldi spesi per la neve artificiale. Eppure le piste aumentano, a dispetto degli appassionati.

Di Fabio Valentini*
3 Novembre 2020

La nascita di un impianto sciistico, la sua realizzazione, per quanto eseguita a regola d’arte comporta sempre delle conseguenze. Per descrivere questo aspetto prenderemo a prestito le parole di Paolo Cognetti, scrittore e montanaro: “Una pista si fa così: si prende un versante della montagna che viene disboscato se è un bosco, spietrato se è una pietraia, prosciugato se è un acquitrino; i torrenti vengono deviati o incanalati, le rocce fatte saltare, i buchi riempiti di terra; e si va avanti a scavare, estirpare e spianare finché quel versante della montagna assomiglia soltanto a uno scivolo dritto e senza ostacoli. Poi lo scivolo va innevato, perché è ormai impossibile affrontare l’inverno senza neve artificiale: a monte della pista viene scavato un enorme bacino, riempito con l’acqua dei torrenti d’alta quota e con quella dei fiumi pompata dal fondovalle, e lungo l’intero pendio vengono posate condutture elettriche e idrauliche, per alimentare i cannoni piantati a bordo pista ogni cento metri. Intanto decine di blocchi di cemento vengono interrati; nei blocchi conficcati piloni e tra un pilone e l’altro tirati cavi d’acciaio; all’inizio e alla fine del cavo costruite stazioni di partenza e d’arrivo dotate di motori: questa è la funivia. Mancano solo i bar e i ristoranti lungo il percorso, e una strada per servire tutto quanto. I camion e le ruspe e i fuoristrada. Infine una mattina arrivano gli sciatori, gli amanti della montagna. Davvero non lo sanno? Non vedono che non c’è più un animale né un fiore, non un torrente né un lago né un bosco, e non resta nulla del paesaggio di montagna dove passano loro?”. Una volta creata, la struttura deve essere gestita per la durata della sua attività operativa; questa è la fase più critica, che determina la reale vita degli impianti. Perché la gestione non è semplice: è un settore con una forte concorrenza.

Piste sempre più condannate alla neve artificiale

Scorrendo le statistiche tratte dal sito Skiresort.it, in Italia esistono circa 280 comprensori sciistici in attività per un numero complessivo di oltre 1700 impianti. Se un tempo le aree erano molto diversificate per raccogliere gli amanti della neve locali, oggi la facilità di spostamento delle persone garantisce la sopravvivenza solo ai comprensori più grandi ed attrezzati, un po’ quello che succede con i piccoli negozi di quartiere ed i grandi centri commerciali. In più si è aggiunto il famigerato cambiamento climatico, che ha fatto aumentare i costi per l’innevamento artificiale. Una stima dell’Ocse prevede che entro il 2050 solo le aree sciistiche localizzate oltre i 1800 metri sul livello del mare potranno lavorare in modo adeguato; inoltre secondo Federfuni, associazione italiana che rappresenta 150 aziende ed enti proprietari e/o esercenti il trasporto a fune in concessione sul territorio nazionale, l’incidenza del costo dell’innevamento artificiale pesa già, attualmente, per il 25-30% in più della media sui bilanci delle società che gestiscono gli impianti di risalita. Sorvoliamo qui sulle analisi di mercato, le valutazioni di incidenza, gli investimenti pubblici e/o privati che stanno a monte della realizzazione.

Alla luce di questi dati, riprendendo le statistiche vediamo che meno del 5% dei comprensori ha piste con le stazioni di partenza ad altitudine oltre i 1800 metri, tutte le altre sono comunque condannate a ricorrere all’innevamento artificiale. Produrre neve ha un costo variabile fra i 2 ed i 4 euro il metro cubo, dipende dalla qualità dell’impiantistica e dalle condizioni climatiche locali o stagionali. Preso atto che i giorni di reale freddo, anche in quota, sono in costante diminuzione, bisogna essere pronti a utilizzare quelle giornate in modo intensivo: in 36/72 ore l’intero demanio sciabile deve risultare innevato. Una sola notte di scirocco, o un’escursione termica protratta nel tempo, fenomeni sempre più frequenti, inibiscono il successo. Quasi il 50% dei comprensori ricadono completamente al di sotto dei 1800 metri, e sono destinati ad estinguersi. A questi vanno aggiunti, secondo le stime del rapporto “Nevediversa 2020” di Legambiente, 132 impianti dismessi non funzionanti da anni ed oltre 100 temporaneamente chiusi.

Praticanti in diminuzione per costi, impianti in aumento

L’impatto “terminale”, relativo agli impianti dismessi che vengono abbandonati sul territorio il più delle volte per cause economiche, è considerevole. Se le amministrazioni locali gettano milioni di euro per tenere in vita stazioni sciistiche con un vero e proprio accanimento terapeutico, quasi mai investono somme per lo smantellamento o la riconversione degli impianti abbandonati, perché l’ambiente non viene mai visto come un valore ma solo una voce di costo da tagliare.

In Marmolada le associazioni ambientaliste, insieme ai gestori di rifugio, hanno raccolto le firme per chiedere alla Provincia di Trento di non avviare la realizzazione della nuova infrastruttura funiviaria – in sostituzione di quella precedente, dismessa un anno fa – prima di aver rimosso tutte le strutture obsolete abbandonate da molti anni sul versante nord della Regina delle Dolomiti. Sarebbe un bel segnale.

Posto che i praticanti dello sci alpino sono in costante diminuzione, sia a causa dell’incremento dell’età media della popolazione che per gli alti costi degli skipass, e che ogni nuovo impianto che apre non attira nuovi sciatori ma li sottrae ad altre stazioni con effetto migratorio, ha senso continuare a progettare nuove strutture dissipando contemporaneamente soldi pubblici per mantenere quelle esistenti che non sono in grado di sostenersi in autonomia e non hanno un futuro?

*Associazione Mountain Wilderness Italia

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