Dizionario

Coronavirus, il dizionario della crisi: da Amuchina a quarantena

Parole - L’epidemia ha cambiato il nostro vocabolario, forse più di quanto sia accaduto con terremoti, alluvioni e altri disastri

14 Marzo 2020

Quel che accade resta invisibile se non viene espresso, ed ecco che improvvisamente ci troviamo a dare del tu a nuove parole o a parole resuscitate, desuete, finora pressoché inutilizzate. O impiegate in altri contesti, con abiti diversi.

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La prima è naturalmente Coronavirus, quella che ha cambiato le nostre vite quotidiane come nessuno immaginava potesse accadere in tempo di pace. Nei giorni dei terremoti abbiamo imparato “sciame sismico”, “faglia”, “placca”. E da qualche decennio, dacché le alluvioni sono così frequenti, abbiamo introdotto nel nostro dizionario il “rischio idrogeologico”, le “tracimazioni”, la “deforestazione”, la “canalizzazione”, il verbo “esondare”. Ora il nostro lessico familiare ha nuovi lemmi, accompagnati da moltissimi di-lemmi.

Amuchina La mamma diceva di usarla per disinfettare la frutta e la verdura, ma quasi mai le si dava retta. Improvvisamente è diventato il bene più ricercato, più prezioso. Sotto forma di gel, salviette, detersivi. “Ma questo odore di disinfettante sei tu?”, chiedono i fidanzati abituati a profumi meno ospedalieri.

Distanza Quella “giusta” (che nei rapporti è praticamente impossibile trovare) oggi ha ufficialmente una misura: un metro e mezzo (con varianti che vanno da un metro e ottanta centimetri fino a quattro metri e mezzo). È uno dei pochi sistemi per evitare il contagio. Ma è anche la cifra di un cambio radicale delle nostre abitudini nazionali, piuttosto affettuose. Niente baci sulle guance ad amici e conoscenti, per non dire degli abbracci. Così il paradosso è che l’unico modo per dimostrare affetto è stare lontani.

Infodemia Questa è una parola nuova, ma è meno allegra di “petaloso”. L’epidemia di informazione/i avrebbe dovuto rendere tutti più consapevoli. Non è stato del tutto così e se all’inizio ci siamo sentiti invasi dagli allarmi che creano angosce, ora ci rendiamo conto che essere informati e sapere quello che accade, come ci si deve comportare, è fondamentale.

Mani Iscritte di segni (“triangoli, rami, croci, stelle, tutta la vita ch’è stata e sarà”) per Sibilla Aleramo; che “saranno persiane rigate di sole”, secondo Vittorio Sereni (“queste tue mani a difesa di te: mi fanno sera sul viso”). Le mani sono (erano) un formidabile strumento di comunicazione. Basta pensare ai modi dire: “dammi una mano”, “sono nelle tue mani”, “tendere una mano”… Le più azzeccate sono ora le varianti di “lavarsene le mani” (comportamento di quelli che invece non se le lavano) e starsene con le mani in mano. Di certo la rivoluzione più rilevante è non darsi più la mano.

Pandemia Composta da pan e demos, alla lettera significherebbe (e non vi sfuggirà la triste ironia) riunione di tutta la popolazione. E poi è diventata “malattia che colpisce tutta la popolazione”. Non una epidemia, ma un’epidemia globale: non credevamo che nel terzo Millennio potesse succedere. E invece ogni giorno è più pandemico del precedente.

Paziente zeroNel Capitolo 31 dei Promessi Sposi, Manzoni parla dei due delegati che spediti nella Milano invasa dalla peste, “Vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna. Le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più, ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare”. Oggi si chiamano “Superdiffusori”, ma il concetto non cambia. Restando a Manzoni, ma fuori dall’uso scientifico, va segnalata la parola “untore”, che vive una nuova giovinezza.

Picco Per noi che di diagrammi ne sappiamo molto, la parola picco era per lo più associata alle montagne aguzze. Ora è la più tristemente anelata, la più pronunciata di certo: una volta superato il picco dei contagi, forse si comincerà a vedere una luce in fondo al tunnel.

QuarantenaUn paio di settimane fa il professor Franco Cardini ha spiegato ai lettori del Fatto che nell’Europa cristiana l’epoca delle grandi epidemie va dalla metà del Trecento alla metà del Seicento. Il picco fu tra il 1347, quando arrivò la yersinia pestis a Messina con le navi genovesi che portavano il grano dal mar Nero, e il 1351-52. Da un articolo del Corriere abbiamo appreso dell’esistenza di un documento del 1377 (custodito negli Archivi di Dubrovnik, oggi in Croazia, all’epoca veneziana), dove si ordina che prima di entrare nella città, i nuovi arrivati dovessero trascorrere 30 giorni in un luogo ad accesso limitato fuori dalla rada in attesa di vedere se i sintomi della peste si fossero sviluppati. In seguito, l’isolamento fu prolungato a 40 giorni. Di qui, la quarantena. Nel 1347 (ante picco) Venezia contava 120.000 abitanti, che furono decimati di tre quinti in diciotto mesi di peste.

Remoto Prima era l’aggettivo da mettere vicino al passato che al Nord si fa così fatica a coniugare. Ora è il modo di vivere virtuale: tutto – dal lavoro alla spesa – si fa da remoto.

Tampone Per le ragazze è una parola più comune, perché è sinonimo di assorbente interno (il tampone si usa per fermare le emorragie). Il termine viene dal francese tampon, “tappo”. Quelli di cui si parla oggi sono i tamponi diagnostici, usati per verificare l’esistenza degli agenti patogeni del Codiv 19.

Ventilatore Le cose che diamo per scontate, sono le più necessarie. La libertà per esempio: e come ci accorgiamo in questi giorni di clausura forzata, non è piccola cosa. La libertà è necessaria come l’aria, scrivevamo sugli striscioni da ragazzini. Ora anche l’ossigeno diventa un bene prezioso e il ventilatore non ci fa più pensare all’afa estiva: i ventilatori polmonari utilizzati nei reparti di terapia intensiva sono troppo pochi.

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