Patrimoniale, l’effetto aglio sui nostri politici

5 Aprile 2019

Avete presente l’aglio e i vampiri? Be’, nel vocabolario italiano esiste una parola che provoca gli stessi effetti sui nostri politici. Basta che qualcuno dica, anche a bassa voce, “patrimoniale” e intorno a lui si apre il vuoto. Uno la pronuncia e loro scappano. Tutti. Non importa se siano di destra, di sinistra, del Movimento 5 Stelle. La reazione è sempre la stessa: il fuggi fuggi generale.

Così, non appena il neo segretario della Cgil, Maurizio Landini, prova a ragionare su un’imposta sui ricchi, Nicola Zingaretti, il segretario di un Pd che secondo Romano Prodi non è più “il partito dei ricchi”, si smarca e dice: “Non è una mia proposta e non è nel nostro programma”. Trovandosi in buona compagnia con Matteo Salvini, che la patrimoniale non l’ha mai voluta, e con Luigi Di Maio che da settimane ripete “niente manovre correttive, patrimoniali o tasse sulla casa”.

Chi scrive, sia chiaro, non è un fan delle tasse. E nemmeno della patrimoniale. Ma, se si parla di imposte sui più facoltosi, in un Paese in cui il 5 per cento della popolazione più ricca detiene un patrimonio (3.800 miliardi di euro circa) pari a quello detenuto dal 90 per cento più povero, la risposta giusta da dare sarebbe “dipende” e non quella tradizionale “non se ne discute nemmeno”.

Se, per esempio, si facesse pagare un’imposta dell’uno per cento ai più ricchi e poi il gettito (quasi 40 miliardi di euro) fosse utilizzato per abbattere decisamente le tasse sul reddito, sarebbe il caso di ragionarci. Perché il ricavato sarebbe sufficiente per avere aliquote Irpef vicine a quelle del 15-20% previste dal contratto di governo.

A queste condizioni anche chi è ricco, ma lavora, avrebbe ben poco da dire: perché in cambio di quell’uno per cento di tasse sul suo patrimonio avrebbe un grande vantaggio. E ancora maggiore sarebbero i benefici per la nostra economia: con più soldi in tasca i lavoratori italiani (a partire dai dipendenti, cioè l’unica categoria che al fisco non può sfuggire) riuscirebbero a rilanciare i consumi interni.

Certo, lo sappiamo, esistono obiezioni non infondate a proposte come questa. Ma dovrebbe far riflettere il fatto che, in pressoché tutti i Paesi dove le imposte sui redditi sono molto più basse che da noi, esistono invece tasse sulla prima casa e sulle successioni. E che sono pure salate. Negli Stati Uniti chi è proprietario di immobili paga fino al 2 per cento l’anno sul loro valore (in Italia invece si paga molto meno e solo sulle seconde case). Mentre nel Regno Unito chi riceve un’eredità superiore alle 325mila sterline lascia al fisco anche il 36 per cento.

Possibile che su tutto questo da noi non sia consentito aprire almeno un dibattito? Sappiamo tutti che in Italia le tasse (per chi le paga) sono troppe. Ma proprio perché gli evasori abbondano ed evadere – come disse qualche anno fa un ex direttore dell’Agenzia delle Entrate – è razionale (un medico corre statisticamente il rischio di una verifica ogni 91 anni e un ristoratore una ogni 30), il nostro sistema va stravolto. Serve un nuovo patto fiscale. Un qualcosa che premi chi produce ricchezza solo con il suo lavoro e faccia invece pagare chi è semplicemente un possidente. Non servono insomma i “no”. Ma servono i “dipende”.

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