Finita la propaganda, adesso è l’ora della Brexit moderata

Di Ivo Ilic Gabara
16 Luglio 2018

Il fine settimana del 7 luglio ha segnato un punto di svolta nella saga della Brexit. Il primo ministro britannico, Theresa May, ha infine trovato il coraggio per prendere di petto l’ala pro-Brexit oltranzista del proprio governo e del Partito conservatore. Dopo due anni d’inerzia, Theresa May ha presentato un piano concreto per una Brexit pragmatica. Ai Brexiteers dentro il governo ha lasciato poco spazio di manovra. Non hanno avuto modo di visionare in anticipo il Libro bianco sulla Brexit – più di cento pagine – e una volta giunti alla riunione nella residenza fuori Londra del primo ministro si sono visti confiscare i cellulari e minacciare di essere privati della macchina di servizio per il ritorno a Londra se avessero deciso di dimettersi.

Le 48 ore successive si sono rivelate più drammatiche. Il primo a defezionare è stato David Davis, il ministro preposto alla Brexit. L’unica vera conseguenza delle dimissioni di Davies è stata quella di precipitare le dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson, forza motrice dietro la campagna mendace pro-Brexit, vittoriosa nel referendum del 2016.

Le dimissioni di Johnson non hanno causato la caduta del governo May. Il momento della verità è stato quando, il lunedì successivo, la May si è presentata al “1922 Committee” che riunisce i parlamentari conservatori, esclusi i membri del governo in carica, è la vera sede del potere nel partito. È nel “1922 Committee” che si ordiscono i complotti e partono i voti di sfiducia contro i Leader del Partito conservatore. Ma la May è riuscita a far approvare la sua nuova linea morbida sulla Brexit. Le dimissioni di Davies, Johnson e un altro paio di ministri junior si sono rivelate una purga più che una crisi di governo.

Il governo di Sua Maestà si è finalmente arreso alla realtà. Le false promesse della campagna referendaria pro-Brexit non sono realizzabili, quindi vanno tolte dal programma del partito e coloro che continuano ad invocarle, come Johnson, vanno isolati. Ora si può finalmente passare al negoziato vero, ossia quello da fare a Bruxelles con la squadra di Michel Barnier e non più a Londra tra le varie ali pro o anti-Brexit dei Tories.

La Brexit dura è stata decapitata dei propri leader. Johnson si è sgonfiato e sarà difficile che riesca a sfidare la leadership della May. Davies è spento già da tempo. Rimane il pittoresco Jacob Rees-Mogg, capo del cosiddetto European Research Group, un gruppo di sostegno del Partito conservatore rabbiosamente pro-Brexit.

Ma non sarà certo un gruppo di una ventina di parlamentari a riuscire dove Johnson e Davies hanno fallito. L’unico Brexiter di un certo calibro che rimane è il ministro dell’Ambiente Michael Gove. Può darsi nutra ambizioni da primo ministro, ma sa che il suo momento non è adesso.

Ora, dunque, Londra può orientarsi verso una Brexit pragmatica e fatta di compromessi. Le tre linee rosse della May sono tutte saltate, infrante dal Libro bianco. Ciò significa che il Regno Unito non uscirà dall’unione doganale per quanto riguarda i prodotti manufatti e agricoli, rispetterà l’insieme delle direttive, regole e regolamenti che governano il Mercato unico e rispetterà le decisioni della Corte di Giustizia europea.

Il governo May ha così chiuso due anni di negoziato con sé stesso a Londra, e il Regno Unito si può finalmente presentare a Bruxelles con delle proposte concrete. Il Libro bianco uscito dagli Chequers è un punto di partenza credibile. Ora si passa al lavoro vero, con l’obbiettivo di arrivare a un accordo per ottobre, così da permettere le procedure di ratifica parlamentare in vista dell’uscita del Regno Unito dall’Ue il 29 marzo 2019.

Il settore dei servizi, e soprattutto dei servizi finanziari, l’80% dell’economia del Regno Unito, è stato espunto dall’accordo che il governo del Regno Unito presenterà a Bruxelles. Ciò consente di dare soluzione al problema della frontiera fisica tra la Repubblica irlandese e l’Irlanda del Nord. Rimosso così l’ostacolo principale, il negoziato può passare dai politici ai tecnici. Nei prossimi mesi si parlerà quindi di compromessi, soluzioni e meccanismi per permettere al Regno Unito di uscire sì dall’Ue, ma con il minimo danno per entrambe le parti. Si parlerà di limiti alla circolazione di beni, servizi, capitali e persone, ma senza linee rosse ideologiche. Si parlerà di come permettere alla City di Londra di continuare a svolgere il suo ruolo chiave di banchiere per il resto d’Europa, si parlerà di equivalenza o reciproco riconoscimento delle leggi e norme che governano i mercati finanziari. Si parlerà di regole a tutela dei diritti dei cittadini Ue residenti nel Regno Unito e dei sudditi di Sua Maestà residenti nei rimanenti 27 paesi membri. Si parlerà di Euratom, di Eurocontrol e di tutte le agenzie, direttive, regole, regolamenti e politiche che formano l’architettura dell’Ue, che hanno portato all’Europa più di sessant’anni di pace e progresso economico e che il Regno Unito, per la propria storia e carattere nazionale, ha deciso di mettere in questione. Ma che adesso, sempre a causa della propria storia e carattere nazionale, ha deciso di affrontare con pragmatismo e razionalità.

Insomma, tutto deve cambiare affinché nulla cambi.

@igabara

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