Forma e sostanza

Rosatellum, l’errore sui seggi nel testo approvato alla Camera. I partiti premono, Boldrini “sbianchetta” e salva l’iter rapido

Troppa fretta - All’articolo 1 due metodi diversi per ripartire i seggi ‘avanzati’: per i giuristi e i tecnici del Senato serviva un voto, ma la presidente ha ceduto alle pressioni di Pd & C.

14 Ottobre 2017

Molti vecchi adagi popolari raccomandano di non fare le cose di fretta, pena figuracce ed esiti non voluti. Vale ovviamente anche per le leggi elettorali e il Rosatellum bis non fa eccezione: si andava di fretta e gli apprendisti stregoni che l’hanno imposto al Parlamento a colpi di voti di fiducia hanno fatto un errore che rischiava di costargli caro. Fortuna che la presidente della Camera, Laura Boldrini, è persona comprensiva: la contraddizione è stata corretta in sede di drafting, cioè di aggiustamento formale del testo. E tanti saluti, di nuovo, alla forma che in democrazia è sostanza.

Andiamo con ordine. Nel testo approvato alla Camera, come ha notato per primo il deputato bersaniano Alfredo D’Attorre, c’è un errore materiale piuttosto grave. Ci scusiamo preventivamente per i tecnicismi: al capoverso 28 dell’articolo 1 della legge approvata, infatti, i commi 6 e 7 indicano due modi diversi di assegnare i seggi a una lista che abbia esaurito tutti i candidati in un collegio plurinominale. È la classica “norma di chiusura”: serve a chiarire come si procede in un caso improbabile, ma possibile. In sostanza, può accadere – c’è un precedente e riguarda Forza Italia nel 2001 – che una lista che abbia ottenuto ottimi risultati in almeno uno dei 65 collegi in cui sarà diviso il territorio nazionale finisca i candidati da eleggere: tanto più che le liste (bloccate) sono corte e la legge consente fino a 5 pluricandidature nel proporzionale.

La norma di chiusura serve appunto a decidere cosa fare in questo caso limite. Solo che il Rosatellum bis di modi ne indicava due: il comma 6 diceva che la lista “recupera” il suo eletto tra i candidati nei collegi maggioritari che non hanno vinto; il comma 7 prescriveva invece che l’eletto “passasse” alle liste coalizzate nella stessa circoscrizione (norma di chiusura, peraltro, monca visto che non è detto che ci siano liste coalizzate).

Qualunque fosse l’intenzione del frettoloso legislatore non si poteva infierire dal testo, né quindi si sarebbe potuto ricorrere a una correzione “formale” nella fase che si chiama di “raccordo del testo”: quella legge è stata votata dai deputati (e quell’articolo con tanto di fiducia) e solo un voto può cambiarlo.

È il parere, ad esempio, del costituzionalista Andrea Pertici: “Non può essere considerato solo un errore ‘materiale’ visto che il testo è passato dalla commissione Affari costituzionali ed è stato votato da un’assemblea di 600 persone. È invece una vera contraddizione da correggere con un voto in Senato”. Tesi condivisa anche dagli uffici tecnici del Senato, a cui il presidente Pietro Grasso aveva chiesto un parere informale sulla questione.

Il testo, infatti, è arrivato a Palazzo Madama solo venerdì sera – “sanato” – e il motivo del ritardo era proprio “l’errore” all’articolo 1. I partiti dell’accordone sul Rosatellum (Pd, Forza Italia, Lega, Alfano e frattaglie varie) hanno passato la giornata a fare pressioni sulla presidente della Camera e i suoi uffici perché derubricassero l’infortunio a mero “errore formale” da correggere con un tratto di penna: alla fine Laura Boldrini, a quanto risulta al Fatto, ha ceduto. I due modi di risolvere il busillis sono diventati sequenziali: prima quello del comma 6, poi quello del comma 7 nel caso il primo non bastasse. Tutto a posto, la legge cara a Renzi, Berlusconi, Salvini, Alfano eccetera può proseguire il suo cammino festoso senza modifiche in Senato e, dunque, senza un altro passaggio alla Camera che avrebbe allungato l’iter oltre le regionali in Sicilia, vere colonne d’Ercole della nuova legge elettorale. Ora non restano che le proteste di chi si oppone al Rosatellum perché Pietro Grasso non ritiene di poter dire alcunché: Palazzo Madama non può sindacare le decisioni dell’altro ramo del Parlamento.

Resta un’ultima questione, davvero paradossale: con la correzione gentilmente concessa a Montecitorio la norma di chiusura è quella che assegna l’ultimo eventuale “resto” ai partiti coalizzati con la lista che ha finito i candidati. E se non è in coalizione? Finirebbe come nel 2001, quando Forza Italia – ricorda il senatore di Articolo 1-Mdp Federico Fornaro – si perse per strada 11 deputati a cui aveva diritto e la Camera non ebbe mai il suo plenum di 630 eletti previsto dalla Costituzione.

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