Assad e le rovine della Siria: la guerra spacca gli archeologi

Parole di fuoco, amicizie che rischiano di rompersi per sempre, accuse incrociate. La comunità degli archeologi del Vicino Oriente è spaccata. La guerra civile siriana ha creato una sorta di nuova cortina di ferro che divide anche chi per anni si è occupato delle grandi civiltà dell’area mesopotamica. Un luogo culturalmente intenso come pochi, evocativo, ancora pieno di misteri e storie da raccontare.
Motivo del contendere è un seminario per studiosi delle antichità siriane, tenuto a Damasco il 10 e 11 dicembre scorso sotto gli auspici del ministero della Cultura siriano, Direttorato generale per le antichità e i musei. Ovvero l’organismo del governo di Bashar al-Assad. Un incontro che ha visto la partecipazione del gotha della scuola archeologica italiana del Vicino Oriente: Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla, che ha inviato una relazione, Giorgio Buccellati, professore emerito della Ucla di Los Angeles, scopritore della biblica Urkesh, Stefania Mazzoni, professoressa dell’Università di Firenze. E poi esperti della cooperazione italiana, come l’architetto Antonio Giammarusti.
Già qualche giorno dopo una parte della comunità scientifica internazionale inizia a contestare la partecipazione al convegno. “In caso di una guerra civile, quando crimini sono commessi da entrambe le parti – spiega Maria Giovanna Biga, docente di Storia del Vicino Oriente antico alla Sapienza di Roma –, non possiamo far finta di niente e pensare solo alle antichità”. La rete velocemente si infiamma, tra appelli scambi di mail tra gli archeologi a livello mondiale: “Noi, in nome delle nostre associazioni, desideriamo esprimere il nostro sgomento e sconcerto ai nostri colleghi che prestano il loro prestigio e professionalità a sostegno di questo regime violento. Vogliamo dissociarci dal loro comportamento vergognoso e riprovevole e respingere la loro grave e imperdonabile sottovalutazione delle norme etiche e morali”, dichiara un appello firmato da Marc Lebeau, del European Centre for Upper Mesopotamian Studies di Bruxelles, con l’appoggio di altri sette studiosi rappresentanti della Direzione generale delle antichità in esilio. “È un evento di propaganda di un regime genocida”, scriveva in un appello Gonzalo Rubio, docente di Assirologia nell’Università della Pennsylvania.
“Il programma indica chiaramente il tono del convegno, che era assolutamente professionale, non c’era una dimensione di propaganda”, replica il professor Giorgio Buccellati al Fatto Quotidiano. “Il tutto era organizzato da due ministeri, ma non c’era neanche un ministro, era presente solo il direttore generale, una persona straordinaria, e la Sovrintendenza”, aggiunge. Nei giorni scorsi Buccellati, che vive e insegna ormai da decenni negli Stati Uniti, ha risposto alle accuse dei colleghi con una lettera, firmata con il professor Mattiae e fatta circolare riservatamente. “Le assicuro che non vi è stata la minima pressione ideologica o politica – spiega al Fatto – da parte dei siriani o da parte nostra. Certo è inconcepibile pensare ad un governo neutro, ma questo non può far presupporre una pressione su stranieri, mai è avvenuta in Siria in più di trent’anni di attività in quel Paese. Mai avuta una pressione, neanche minima”.
Maria Giovanna Biga pone la questione da un punto di vista diametralmente opposto: “Tutti abbiamo lavorato in Siria, abbiamo sempre lavorato bene, la famiglia Assad ci ha sempre trattato bene. Però abbiamo chiuso gli occhi per troppo tempo, non avevamo capito nulla, non ci aspettavamo una cosa del genere, quando sono scoppiate le proteste”. L’altro volto del Paese in guerra arriva dai racconti di chi è fuggito dal governo di Assad: “Ho un dottorando che ha partecipato alle proteste. Proprio nei giorni scorsi mi ha mandato le foto dei bombardamenti e ci ha raccontato della repressione dura subita”, prosegue la docente della Sapienza.
La questione è il futuro dei siti archeologici. Oltre alle devastazioni di Daesh – che nascono da motivazioni ideologiche e religiose – vi sono molte zone colpite dai bombardamenti, operati anche dal governo siriano e dalle forze internazionali. “L’incontro di Damasco in realtà non è stato il primo su questo argomento – spiega Stefania Mazzoni, una delle docenti che ha partecipato al seminario –. Ci eravamo già incontrati con l’Unesco e la Direzione del Ministero della Cultura siriano negli anni passati”. Sulla polemica che è seguita all’incontro la docente di Firenze pesa le parole: “Sicuramente il nostro pensiero è a favore della popolazione, ciascuna missione archeologica ha reti invisibili, per motivi di protezione, per cui siamo in collegamento con gli operai, gli studenti e cerchiamo di mandare un sostegno a loro”.
Se molti hanno mantenuto un rapporto con la Direzione delle antichità siriana per non rimanere indietro nella prossima corsa alla ricostruzione e al recupero dei siti, per gli archeologi italiani presenti al seminario – tutti in pensione – c’era probabilmente anche un legame emotivo ed esistenziale con i luoghi degli scavi: “Non le nascondo l’emozione provata”, spiega la professoressa Mazzoni. Di certo il peso culturale e storico di quelle aree è immenso: “Che valore hanno per noi quelle pietre degli Assiri, di quelle civiltà? Perché abbiamo radicato in noi il voler imparare dall’esperienza del passato. Guardare al futuro perché si ha conoscenza del passato, mentre lo Stato islamico ritiene che questi siano luoghi di perdizioni, diaboliche tentazioni, di falsi dei, di paganesimo, quindi assolutamente da eliminare”, spiega Maria Tilde Bettetini, autrice di Distruggere il passato. L’iconoclastia dall’Islam all’Isis (Raffaello Cortina editore).
La polemica, tutta occidentale, prosegue. Quanto vale per l’Italia mantenere due piedi tra gli scavi di antiche civiltà affascinanti e dense di storia? È giusto mettere da parte i diritti umani per esserci e contare?