Perché il renzismo sta sulle palle a tutti

22 Giugno 2016

La serena analisi del voto da parte di Matteo Renzi somiglia allo scomposto lamento di John Belushi nei Blues Brothers: “Non è stata colpa mia! Ero rimasto senza benzina… la tintoria non mi aveva consegnato il tight… il terremoto, una tremenda inondazione… le cavallette!”. Diffonde il verbo Maria Teresa Meli sul Corriere: “Può essere che a qualche renziano sia chiesto di farsi da parte”, che in italiano significa “pagherà qualche gerarca pur di mettere in salvo il capo”, roba già vista. Il resto lo fa la capacità mimetica del giovanotto: bravi i 5Stelle che hanno vinto perché vogliono innovare, proprio come fa lui, che sarebbe una specie di Vero 5 stelle, e gli elettori che protestano dovrebbero votare per lui, si sono semplicemente sbagliati, che disdetta. Avessero vinto le Carmelitane scalze oggi Renzi andrebbe in giro senza scarpe dicendo che la vera Carmelitana è lui.

Eppure c’è un dato che Renzi ignora e che si sente palpabile nel Paese, una specie di Questione Umorale: Renzi, il renzismo, la renzitudine e la renzità stanno sulle palle a una larga fetta della popolazione, per vari motivi. Il primo è, diciamo così, la sindrome di Silvio. Il sole in tasca, il “va tutto bene”, le fregnacce dell’Italia che riparte, la vecchia barzelletta made in Arcore che se dici che tutto procede per il meglio poi tutto procederà per il meglio. Dire queste cose mentre moltissimi vivono di voucher, pagano esami sanitari che prima erano gratuiti o vengono chiamati – da poveri – a rendere la mancia degli 80 euro perché troppo poveri, fa piuttosto incazzare.

Ma questo è solo un lato della Questione Umorale. L’altro lato è, se possibile, ancora più irritante. È quel chiacchiericcio di gerarchi e gerarchetti del renzismo scatenati nei media e nei social network, quelli che, nel farsi portavoce del capo, brillano per eccesso di zelo. Quelli che dicono “ciaone, quelli che twittano che con Fassino a Torino arriveranno i Radiohead e invece con l’Appendino solo tristezza e strade deserte alla sera.

Quelli che chiamano l’avversario #classedirigentemaddeché, o che sputano fiele su quello che era (un tempo) parte del loro elettorato. Quelli che irridono, che resuscitano in versione toscana quella spavalderia arrogante che fu la cifra del primo craxismo milanese. In soldoni, una classe politica di “nuovi e giovani” che nel vecchio Pci avrebbe a stento pulito i vetri della sezione, e oggi invece va in giro ostentando il cappello con le piume da statista. È questa, la vera #classedirigentemaddeché, uno spettacolo desolante per malagrazia verbale e pochezza culturale.

Ma il vero problema della Questione Umorale è che non è risolvibile. La cifra del renzismo conosce una sola modalità (la similitudine con Silvio è palese): quella della vittoria, della supremazia, della soddisfazione tronfia, della certezza di essere nel giusto.

Se il renzismo mediasse, se ascoltasse, se guardasse la realtà, insomma, se facesse politica invece che propaganda, non sarebbe più renzismo, perché l’arroganza (come fu con Bettino) non è un orpello, ma un elemento strutturale, materia culturale e ideologica fondante. Tutti amano Muhammad Ali quando dice “lo stenderò alla terza ripresa”, ma questo avviene perché Ali, poi, lo stende davvero alla terza ripresa. Se fai costantemente il giro di campo alzando la coppa e perdi quattro a zero, la gente sugli spalti non batte le mani, ride, e dopo che ha riso va a votare per qualcun altro, senza rimpianti. Dunque il renzismo, e Renzi lo sa, non è emendabile: o così o niente, prendere o lasciare. L’unica opzione è il rilancio. Il renzismo fallisce? Più renzismo! Come l’autobus che va contro un muro a cento all’ora e l’autista che dice: acceleriamo!, e poi si stupisce e si offende se molti passeggeri scendono al volo.

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