Buccinasco, il boss Papalia rivuole il cortile confiscato dallo Stato

6 Novembre 2017

Di quella storia assurda avevo già letto sui giornali. Ma quando salendo dalla scala buia ho inteso d’improvviso il profumo domestico dei broccoli mi sono fatto veramente l’idea. La padrona di casa, diciamo così, era indaffarata in occhiali davanti a una grande cucina, “tutta roba regalata, anche da Ikea”. Ha riconosciuto l’ospite, introdotto dal marito e da un simpatico cagnone fulvo, ed è stata contenta della compagnia. Si chiama Daniela, e non ha detto cose roboanti, come nemmeno Sandro, il marito. Ma sono bastate un po’ di immagini, un po’ di racconti, e il quadro si è fatto chiaro. E paradossale. Qui Buccinasco, la Platì del Nord. Il paese dell’hinterland sud di Milano dove le famiglie calabresi hanno fatto per decenni quel che volevano.

Qui i nomi che si rincorrono sono sempre gli stessi: Sergi, Papalia, Barbaro, Perre e altri ancora. La casa a due piani, con scantinato per stare in compagnia, sta in una via stretta e anonima vicino al centro. Cancello con citofono disastrato. Senza luce. Faceva parte di una casa più grande, che è stata praticamente divisa in due. Era il quartier generale di Rocco Papalia, uno dei tre fratelli, gli altri sono Antonio e Domenico. Un giorno Rocco fu condannato a quasi 30 anni di carcere, anche se i familiari ne rivendicano l’onestà adamantina. E subì sequestro e confisca dei beni ritenuti collegati con le attività illecite. Compresa la casa. Che non fu confiscata per intero. Ma per metà.

Perché nella famiglia qualcuno protestò, carte alla mano, di essere nullatenente. Tra intestazioni e dichiarazioni dei redditi il meccanismo apparve salomonico. Metà casa confiscata, metà lasciata alla famiglia. E nella metà confiscata è iniziato poco tempo fa un esperimento coraggioso. Portarci minori stranieri in affido per farli studiare e avviarli al lavoro. Non facile. La patata se la sono presa appunto i due coniugi – lei casalinga lui operatore nella ristorazione – tutti e due non nuovi a queste scelte generose.

L’esperimento di Villa Amantea, come si chiama la casa, è diventata un punto di riferimento. Una doppia eresia per il senso comune di certi benpensanti: confiscare i beni ai boss e aiutare gli immigrati. Solo che poi ci ha messo lo zampino la giustizia. Conta che ti riconta, assembla e cancella, è risultato che Rocco Papalia poteva uscire dal carcere. E tornare a casa nell’altra metà, agli arresti domiciliari.

Festeggiamenti di massa, come è giusto per un condannato per omicidio e narcotraffico. L’uomo si è pure presentato un giorno ai nuovi inquilini imbarazzati, e ha detto loro che apprezza quel che fanno. Nel frattempo però pretende puntigliosamente l’uso degli spazi comuni, ed è più presente di un normale condomino, visto che di medesima villa si tratta e non di due appartamenti nello stesso palazzo. Tra una spiegazione e un racconto la casa si popola. Si siedono quattro ragazzi di colore, Gambia, Mali, Senegal. Felpe e maglioni colorati. Parlano un italiano comprensibile, scuola e calcio e ancora poca voglia di discoteca. Marito e moglie ne coltivano i modi, e si vede. Arrivano due educatrici.

Tra le battute divertite si coglie il disagio di una situazione surreale, da cui dicono che il Comune vuole difenderli, anche perché gli interruttori dell’acqua e della luce stanno dall’altra parte, per questo all’ora di cena all’ingresso e sulle scale c’è buio pesto. Non solo i giovanissimi africani, ma anche i coniugi venuti a fare cose generose nulla sapevano prima dei vecchi proprietari. Gli è piovuto addosso un mondo ignoto. “Ma i giudici non ci pensano alle conseguenze quando prendono delle decisioni?”, chiede qualcuno del gruppo.

Naturalmente sappiamo bene come risponderebbe un giudice. Il fatto è che nel frattempo un’altra decisione è stata presa. Rocco Papalia è stato considerato non più socialmente pericoloso, e dunque in un pugno di settimane sono volati via anche gli arresti domiciliari, come se un diavoletto abbia pensato che le notizie è meglio darle in due tempi per renderle più digeribili. Un altro giudice si è opposto a questa decisione. E verrebbe da dire per fortuna, in questa Lombardia che con gli imputati e condannati delle famiglie calabresi più influenti straripa, da anni, di sentenze strane, di credulonerie e di incredibili perizie. Ma noi che c’entriamo, come è possibile? I visi buoni che ho davanti sembrano non capacitarsene. Eppure proprio questo può accadere a chi mette il suo volontariato al servizio dello Stato. Che di questi tempi pensa ad altre cose. Anche quando discute di carceri e criminali.

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