Il dossier

Meloni&C. lodano Borsellino, ma scelgono Berlusconi

Il giudice invitava i partiti a “fare pulizia” - Pubblichiamo stralci della lezione tenuta da Paolo Borsellino agli studenti dell’Istituto professionale “Remondini” di Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989

Di Paolo Borsellino
13 Luglio 2023

Vorrei cominciare [parlando] di cultura della legalità, una cosa che probabilmente a scuola si insegna molto poco. Che cosa intendo per cultura della legalità? Sapere e recepire appieno che cosa sono le leggi e perché le leggi debbono essere osservate. Verrebbe da pensare che le leggi vengono osservate soprattutto perché, se non si osservano, ci sono sanzioni penali o civili. Ma non è vero (…). Le leggi, la maggior parte della popolazione le osserva o dovrebbe osservarle, perché acconsente a esse, cioè ritiene che si tratti di comandi o divieti giusti. (…) Ma è chiaro che, tanto più queste leggi vengono osservate, quanto più si ritiene che le leggi siano giuste, quanto più il cittadino tende a identificarsi con le istituzioni (…). Ci sono dei bisogni del cittadino che sono il bisogno di giustizia, il bisogno di sicurezza, che il cittadino chiede naturalmente che gli vengano assicurati da un’istituzione sovrapersonale quale è lo Stato. Quando ritiene che non gli vengano assicurati, quando non si identifica, quando non ha la fiducia nelle pubbliche istituzioni, cerca naturalmente di trovare dei surrogati a queste esigenze (…). Se il mio vicino, il mio contraente, non mi paga, io devo essere in condizione di rivolgermi a un giudice che lo condanni a pagare e che mi assicuri la possibilità di riprendermi quello che gli ho dato (…).


video integrale di Archivio Antimafia

Senza fiducia Come e perché la mafia entra nello stato

Quando tutte queste cose non funzionano, cioè quando questo clima di reciproca fiducia non viene assicurato dallo Stato (…) allora, se esiste, se storicamente si è formata un’organizzazione criminale in grado di assicurare qualcosa del genere, un surrogato di questa fiducia che lo Stato deve poter assicurare fra tutti i cittadini, ecco che questa organizzazione trae forza, (…). E quando lo Stato non si presenta con la faccia pulita, tale da assicurare l’imparziale distribuzione delle risorse, allora ecco che lo Stato spesso diventa il veicolo in cui si inserisce l’organizzazione criminale rivolgendosi alla quale si ha quantomeno la speranza di riuscire ad accaparrare quella commessa, quell’appalto pubblico, quella possibilità di lucrare sulla distribuzione di risorse pubbliche. (…).

A un certo punto, la mafia scoprì che interessandosi [al traffico di stupefacenti] i suoi profitti potevano essere enormemente moltiplicati (…). E mentre prima era solo un’organizzazione parassitaria che si inseriva nella distribuzione delle risorse, cominciò addirittura a produrre queste risorse (…). E dovendo gestire questi enormi capitali, che cosa ha fatto? I capitali come si gestiscono? Si vanno a cercare dei mercati dove poterli poi impiegare, nelle attività che noi chiamiamo “paralecite”: cioè, le attività nascono dall’illecito e poi bisogna impiegare i capitali da qualche parte, e la mafia va a cercare naturalmente i mercati più ricchi. (…)

Non illudiamoci che le azioni giudiziarie, per quanto penetranti, possano fare piazza pulita della mafia. Si potrà accertare l’esistenza di quello o di quell’altro mafioso, raggiungere le prove, condannarlo, ma se non si incide a fondo sulle cause che generano la mafia è chiaro che la sua pericolosità… è chiaro che ce la ritroveremo davanti così come era prima.

Contiguità Quando mafia e stato vanno a braccetto

Sono emersi dalle nostre indagini tutta una serie di rapporti fra esponenti politici e organizzazioni mafiose che nella requisitoria del maxiprocesso vennero chiamati contiguità. Cioè delle situazioni di vicinanza o di comunanza di interessi che però non rendevano automaticamente il politico responsabile del delitto di associazione mafiosa. Perché non basta fare la stessa strada per essere una staffetta.

La stessa strada si può fare perché in quel momento, almeno dal punto di vista strettamente giuridico, si trova conveniente fare convergere la propria attenzione sullo stesso interesse. Questo non ci ha consentito, dal punto di vista giudiziario, di formulare imputazioni su politici, però stiamo attenti. Vi è un accertamento rigoroso di carattere giudiziario che si esterna nella sentenza, nel provvedimento del giudice, e poi, successivamente, nella condanna, che non risolve tutta la realtà, la complessa realtà sociale. Oltre ai giudizi del giudice esistono anche i giudizi politici, cioè le conseguenze che da certi fatti accertati trae o dovrebbe trarre il mondo politico. Esistono anche i giudizi disciplinari. Un burocrate, un alto burocrate dell’amministrazione che ad esempio abbia commesso dei favoritismi potrebbe non aver commesso automaticamente – perché manca qualche elemento del reato – il reato di interesse privato in atto d’ufficio, ma potrebbe essere sottoposto a procedimento disciplinare perché non ha agito nell’interesse della buona amministrazione.

Il grande equivoco Delegare la morale pubblica ai giudici

Ora, l’equivoco su cui spesso si gioca è questo; si dice: quel politico era vicino al mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con l’organizzazione mafiosa, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. Eh no! Questo discorso non va perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire be’ ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire che quest’uomo è mafioso. Però siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato, ma erano o rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica.

Disonestà La misura non è la fedina penale

Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo “schermo” della sentenza, si è detto: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia e non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato.

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