L'intervista

Lindo Ferretti: “Pregando con mia madre, la malattia è regredita: le risate…”

L'ex leader dei Cccp - Il cantautore punk scava nell'intimo per raccontare le svolte di una vita: la conversione al cattolicesimo, l'esilio nel borgo appenninico natìo, l'incontro con Battiato, il dolore e le gioie con la madre malata di Alzheimer

14 Ottobre 2022

L’uomo che scorteccia le parole come pochi, che tributò Fenoglio come nessuno e che per decenni ha tenuto insieme punk, ascesi, militanza, rivoluzione e poesia in musica, se ne sta nella sua Cerreto Alpi con due cavalli che adora, cinque gatti (il più cattivo lo ha chiamato Putin), un cane che risponde al nome di Scampato, una gher (le tende usate dai popoli nomadi dell’Asia Centrale) dove prega e uno zio 97enne che accudisce con devozione. Giovanni Lindo Ferretti ha scritto un libro tenero e toccante di preghiere e memorie, Óra (Compagnia Editoriale Aliberti). L’uomo parla poco (coi media) ed esce ancor meno. Crudo e protettivo, inquieto e pacificato, stanco e vivacissimo. Un ossimoro di acume vibrante e talento assoluto. Un artista così enorme che, se lo ascolti con troppa attenzione e trasporto, rischi quasi – per osmosi – di deragliare da te stesso.

“Odiavo il palcoscenico, rifuggivo il pubblico”. Lo scrivi nel libro.

Non do molta importanza al successo, altrimenti entro in una dimensione che non mi appartiene. Ho anche troppo ego, occorre tenerlo a bada. Distruggere il proprio ego è una pratica fondamentale. Io non volevo fare il cantante. Faccio fatica a stare sul palco, anche se dopo i Csi e i Pgr mi pesa di meno. Fare il cantante mi fa cagare e so di essere inadeguato, ma so anche di essere indispensabile perché si crei la magia del concerto. Sono la presenza umana che fa da collettore alla liturgia scenica: non sono che un mero tramite. E a volte ciò è gratificante.

Una cosa bella?

No, perché la gratificazione è un problema. Sono una parte infinitesimale di una storia enorme che mi sovrasta. Faccio una parte in questo presente e devo farla bene, ma non per rispetto del mio pubblico: per rispetto dei miei morti. Mia nonna diceva: “Quando sei in chiesa, non sei solo tu. Sei tuo padre, sei tuo nonno. Sei tutti coloro che vivono ancora nei ricordi delle persone che ti guardano”.

Com’era recitare il rosario con tua madre?

Stavamo davanti a quella finestra lì al centro. Ogni finestra che vedi in questa stanza ha la sua storia. Quella più lontana rappresenta mia nonna: era una regina longobarda, una Madonna ortodossa. Mia madre aveva l’Alzheimer, stava crollando molto velocemente e tutte le sere dicevamo il rosario: era l’unica cosa che potevamo fare. Io sono residuale di pastori allevatori e so che i problemi vanno gestiti prima che accadano. Così ho agito d’anticipo. Il delirio arrivava al tramonto, e con il rosario abbiamo allontanato il vuoto. I dottori, dopo la sua morte, mi hanno detto che un Alzheimer conclamato era diventata una demenza senile. In qualche modo la pratica del rosario aveva fatto regredire la malattia.

Ne parli come se fossero stati anni belli.

Lo sono stati. Quei due/tre anni della sua malattia li chiamo “l’inverno del nostro contento”: non abbiamo mai riso così tanto, mia madre era diventata divertentissima. Io per lei sono stato un grande cruccio, e nella vecchiaia l’ho in qualche modo ripagata. Ci siamo pacificati.

“Sciocco giovinastro asservito agli slogan del momento”. Nel libro ti definisci così.

Nei confronti della mia vita ho uno sguardo spietato. È inutile nascondersi. Per questo il mio sentimento religioso è cresciuto così forte. Mia nonna mi ha insegnato a fare un esame di coscienza ogni giorno prima di dormire, e di non contar balle. Sono molto severo e per questo detesto il sarcasmo, perché il sarcasmo è sempre un po’ autoassolutorio. Preferisco essere spietato.

Il libro si chiude con un saluto straziante a un amico moribondo: “Lasciati andare, Dario, ti prego, è finita. Arrenditi alla vita che muore”.

Qualcuno ha trovato quel passaggio brutale, ma non puoi dire bugie. Men che meno a chi sta morendo. La preghiera dei defunti è la più importante della mia vita: nel libro c’è grazie a Dario. Avrei dovuto mentirgli? Mai. Io ho scoperto la morte da bimbo, quando mi portarono a vedere mio zio. Un donnaiolo, un gaudente. Si suicidò. Era coperto da un lenzuolo, perché “era morto male”. Mia nonna mi disse di non preoccuparmi, ché ormai ero grande per vedere un morto: “Lo zio sarà freddo, toccagli la mano. La morte è il freddo, la vita è il caldo”. Ho scoperto la morte con la mano fredda di mio zio: il gelo della morte.

Che rapporto hai con lei?

La morte è insopportabile solo per chi non riesce a vivere. Io sono nato subito dopo la morte di mio padre: l’ho conosciuta subito. Le comunità sono fatte dai funerali. “Nato tra i morti sui monti”: è la mia vita. Morire è un pezzo del vivere, e se hai un buon rapporto col vivere non puoi non avere un buon rapporto anche con la morte. In città la morte è stata allontanata, mentre in campagna è ancora una presenza vitale. Se tu togli la morte, amputi la vita.

Te ne frega qualcosa di quello che pensano gli altri di te? Negli ultimi anni, per le tue posizioni, hai perso non poco pubblico.

(pausa) Ho paura di apparire arrogante, ma non me ne importa nulla. Non sono interessato in alcun modo ad aprire un contraddittorio. Sono molto interessato al conversare, ma non ho mai cercato di convincere qualcuno o men che meno di farmi convincere da qualcuno.

Che effetto ti ha fatto veder vincere la tua amica Giorgia Meloni?

(pausa) Ti rispondo perché, così facendo, rispondo anche a me stesso. È l’ora di farlo. Quando ho visto il risultato delle elezioni la mattina dopo, sono stato molto contento che la sinistra avesse perso. Fino al giorno del voto, non sapevo se avrei votato o no. In campagna elettorale non mi è piaciuto nessuno e mi hanno innervosito tutti, Meloni compresa. Poi ho votato e ho votato lei. Vedendo al mattino di quanto avesse vinto, ho detto: “Povera Giorgia”. E ho recitato un’Ave Maria per lei. Da allora tutte le mattine dico una preghiera per lei. È in una condizione impossibile: per la situazione generale, per la sua coalizione, per la natura degli italiani che sono ingovernabili. A Giorgia voglio bene, mi piace la sua storia e mi piace la sua mente politica. Mi piace che venga dalla povertà e che non sia ipocrita. Sono andato a pranzo tre volte con lei e potrei dire di ritenerla un’amica.

Perché sei stato così contento della sconfitta della sinistra?

Molto contento, e non penso solo al Pd ma proprio a tutta la sinistra. Intanto è ridicolo che la prima donna Presidente del Consiglio sia di destra, dopo che per decenni la sinistra ce l’ha menata con le quote rosa. E poi sono molto contento perché, da persona cresciuta convinta di appartenere alla sinistra rivoluzionaria e progressista, ho scoperto con dolore – all’implodere dell’Urss – che io avevo sostenuto coloro che da sempre distruggono tutto ciò che amo e a cui mi sento legato.

C’è chi ti dà del “fascista”.

Mi metto a ridere. Io sono profondamente antifascista: sono antifascista da secoli. Questa è una casa di un antifascismo viscerale, perché tradizionale e cattolico, mentre il fascismo è ideologia e modernità. Sono profondamente antifascista, e questi antifascisti tre generazioni dopo, con le due precedenti ben dentro tutte le istituzioni del fascio, mi fanno ridere. Mia nonna me lo diceva sempre: “Tanta di quella gente che ora vedi con le bandiere rosse, prima della guerra portava le bandiere del fascismo e menava il nonno”.

Anche Fenoglio batteva molto il tasto sul trasformismo di tanti neo-comunisti fino al giorno prima fascisti. A Fenoglio, coi Csi, dedicaste un concerto pazzesco ad Alba nel 1996.

Puoi chiamarlo concerto, per me non è un abuso chiamarla preghiera in pubblica funzione. Si può pregare anche senza averne coscienza, ed io ho sempre pregato. Anche quando cantavo. A volte consciamente, come in Madre, Amandoti e Annarella. E più spesso inconsciamente.

Che rapporto hai adesso con Massimo Zamboni?

È complicato risponderti. Zamboni e i Cccp sono stati per me un dono immeritato, e viceversa. Io e Zamboni, per decenni, siamo stati una sola “unità mentale”. Io parlavo e lui mi capiva, lui parlava e io lo capivo. Così com’è cominciata, così è finita. E a quel punto, direi giustamente, ognuno di noi ha tirato fuori il peggio. Trentatré anni dopo la fine dei Cccp, di recente io e Zamboni abbiamo presentato insieme la nuova edizione del Libretto rozzo. Non sapevo come sarebbe andata il ritrovarsi sul palco. Invece è stato sorprendente, perché parlando di quel periodo è tornata anche quella sintonia. È accaduto anche quando, poche settimane dopo, abbiamo rivisto Annarella e Fatur per un’intervista sui Cccp: sembrava che ci fossimo salutati la sera prima. Una cosa stupefacente.

L’anno prossimo sarà il quarantennale dei CCCP.

Ci hanno già chiesto in qualche modo di celebrare la ricorrenza. Ho risposto così: “Sarebbe più gentile se, prima di farlo, aspettaste la mia morte”. Però credo che qualcosa faremo.

Una mostra? Un concerto-reunion?

Vediamo. Si tratta di ricreare quello stato di grazia dei Cccp. E gli stati di grazia non possono durare in eterno.

Anche i Csi appartengono a quello stato di grazia?

Quando parlo di musica per me è un tutt’uno, però c’è una grossa differenza: i Csi sono la rivincita della musica. Sul palco eravamo in grado di fare dei concerti da paura. I Cccp erano il teatro primitivo e d’avanguardia. Proprio un’altra cosa. Apprezzo appieno entrambi. Certo, i Csi per certi versi erano persino “troppo”: il pianoforte, la chitarra di disturbo, la chitarra che accompagna, il basso, la voce, la controvoce, i tecnici, gli impianti. È un po’ la banalità del rock. Invece i Cccp erano eversione pura. I Csi sono uno dei grandi gruppi del rock alternativo, i Cccp una luce a sé.

Grazie ai Csi hai conosciuto Battiato.

Non ero un suo fan. Amavo soprattutto una sua canzone lontana, Aria di rivoluzione. Però lo avevo già visto nel ’71 o ’72. Faceva musica sperimentale e durante il concerto lo contestarono ferocemente. Provai compassione per lui, trovai tutto brutale. Nel ’97, dopo Tabula Rasa Elettrificata, volle conoscerci. Fu molto gentile e ci offrì un vino carissimo, non sapendo che nessuno di noi beveva vino. Ora invece lo bevo sempre: ho cominciato a 44 anni, quel giorno, proprio grazie a Battiato. Lo andavo a trovare nella sua casa di Catania, oppure a Milano. Parlavamo di tutto fuorché di musica. Una volta mi chiese di recitare in un suo film. Durante la scena, una mosca si posò sulla mia fronte. Feci finta di nulla e andai avanti. Lui ne rimase entusiasta e disse ironicamente che la mosca era voluta e faceva parte del copione. Legavo molto anche con Manlio Sgalambro. Insieme abbiamo preso delle sbronze tremende, dovevano letteralmente portarci di peso in camera perché proprio non stavamo in piedi.

Quando ti intervistai 22 anni fa, eri sottosopra per avere perduto Tancredi, il tuo cavallo del cuore.

(pausa, si commuove) È stato un momento durissimo. Ho rotto con Zamboni, sono finiti i Csi, la mia casa stava crollando, ho perso il mio cavallo preferito. Tancredi morì colpito da un fulmine. Alzai gli occhi al cielo e dissi: “Dio, ora basta, così è troppo” (si commuove ancora). Ricominciai a vivere rimettendo in piedi la casa, questa casa, perché tutto nasce da lì. Adesso però in camera ho il teschio di Tancredi, perché la terra per fortuna me lo ha restituito

Cioè?

Tancredi cadde in un burrone e non potei recuperarlo. Così costruii un enorme tumulo accumulando sassi. Una grande piramide in fondo al dirupo. Era la tomba di Tancredi, che ogni tanto andavo a salutare. Tre anni dopo venne un’alluvione devastante che frantumò il tumulo. Mi guardai attorno e cominciai a vedere delle ossa che spuntavano. Scorsi poi qualcosa di bianco: scavai e trovai il teschio di Tancredi. Intatto. Lo misi sotto la camicia e tornai a casa. Avevo paura che mia madre, già sull’orlo dell’Alzheimer, inorridisse pensando a un mio ritorno della fase dark. Invece lo guardò e disse: “Ma è Tancredi? Be’, adesso dovrai trovargli un bel basamento per farlo stare bene”. Ora sta in camera mia. E mi fa compagnia.

Perché questo luogo, Cerreto Alpi, è così importante per te?

Perché non dipende da me. Sono nato alla fine del Medioevo, in un mondo in cui il Medioevo era finito da seicento anni. Ma a Cerreto no. Da noi è finito nel 1953, quando sono nato, con l’avvento della tivù e della strada asfaltata. Due cose che hanno distrutto qualcosa che durava più di mille anni. Ho fatto in tempo a percepire la grandezza di qualcosa che moriva e anche la fascinazione per quello che stava nascendo. Ragiono con la consapevolezza di non essere che generazione su generazione. Carne e sangue dei miei antenati. Io, i miei problemi, li ho con la mia famiglia: non con il mondo. Ho avuto la sfiga di vivere un tempo in cui, per sopravvivere, dovevo vendere i cd invece delle formaggette. Avrei preferito di gran lunga vivere quando il mondo era giovane, ma probabilmente qualche mio avo avrebbe preferito vivere al mio posto. Quindi, a ben pensarci, abbiamo pareggiato la nostra storia.

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