Il reportage

In fuga ad Alcatraz, le vite sospese dei rifugiati ucraini

Il progetto di accoglienza, un mese dopo - Le storie. Liza, Lena e gli altri. Raccontano i giorni in Umbria dopo la grande paura, tra attese, incubi e speranze

1 Maggio 2022

Le ruote del trolley non girano più. Le valige, fatte in fretta, furia e paura nei giorni dell’invasione, sono state svuotate: ora sotto i letti o sopra gli armadi riposano in attesa di essere riempite un’altra volta. Chissà quando e chissà per dove. Il viaggio è il luogo dove i rifugiati abitano nel nostro immaginario di spettatori, ma è solo il pezzo più pericoloso e spettacolare. La vita, dopo, non è meno faticosa. Perfino per Liza, Lena, Nina e gli altri ventitré ucraini che sono arrivati più di un mese fa ad Alcatraz, un paradiso di silenzio e natura che quarant’anni fa Jacopo Fo ha cominciato a costruire in Umbria e che sfugge alle definizioni: albergo diffuso, fattoria, laboratorio di fantasia e rinascita, palestra di accoglienza che nei decenni si è declinata in cento modi. Oggi è la casa dei rifugiati, che sono arrivati qui grazie alla collaborazione tra la Fondazione Fatto Quotidiano e la Fondazione Dario Fo e Franca Rame.

La “prigione da cui nessuno vuole scappare” si raggiunge dopo aver attraversato la località Casa del diavolo, per una strada di colline placide. Il silenzio è rotto dai giochi dei bambini, che si sono ambientati subito. Hanno bici con le rotelle e palloni mai stanchi: rotolano attorno alle sculture che Jacopo, Dario, Franca e molti altri hanno costruito e che spezzano, in un’esplosione di colori, la sinfonia del verde primaverile. I giochi si fermano quando arriva Mattea, la figlia di Jacopo, che gestisce l’accoglienza: ha una riserva infinita di baci, tirati fuori dallo zaino paziente in dotazione alle mamme, ingombro di mille occupazioni e altrettante preoccupazioni. A cinque settimane dalla riapertura di Alcatraz, che in quattro giorni è stato ripulito dai volontari dopo due anni di chiusura a causa della pandemia, il faldone di Mattea – un quadernone zeppo di fogli Excel dove la vita di 26 persone è appesa al filo dell’ingorda burocrazia italiana – oggi si apre per le questioni mediche. I rifugiati hanno dovuto firmare la “dichiarazione di indigenza” che serve per accedere alle cure del servizio sanitario: le donne hanno faticato a capire e ad acconsentire perché la dignità è l’unica cosa che resta dopo che hai perso tutto il resto. Loro non sono poveri, sono rifugiati. I vestiti, le scarpe, la biancheria non la vogliono prendere quando i volontari la smistano. Tornano dopo, per non mostrare la vergogna del bisogno.

Il tempo dell’attesa
Il problema più grande per i grandi è l’incertezza: restare, al sicuro ma lontano da casa, e per quanto? La nostalgia è violenta come la paura di tornare. Il tempo in mezzo è sospeso, i giorni che i volontari riempiono di premure e attività, sono lunghissimi e affollati perché, anche se ogni nucleo familiare ha le proprie stanze, si condividono i pasti, la spesa, il bucato. Terribile non sapere che cosa succede a parenti e amici, se la propria casa, spesso costata i sacrifici di una vita, è ancora in piedi. Me lo dicono tutte le donne che sfilano nella caffetteria, davanti a un tè sempre allungato dalle lacrime. Raccontare è uno strazio: raccontare è rivivere. Anche prima della traduzione di Talia – l’interprete che sopra ogni parola di questa lingua dura mette un accento di dolcezza – si capisce il senso di tutto. Gli adulti stanno imparando l’italiano, grazie alle lezioni dei volontari, ma è una montagna da scalare perché l’alfabeto è diverso e allora girano con i bigliettini stretti nella mano, dentro le parole che servono per chiedere qualcosa. Con Mattea, suo marito Stefano e gli altri si parlano in un grammelot di lingue mischiate – italiano, inglese, ucraino – gesti e versi. Mentre Mattea, usando il traduttore online, parla con Nina – una farmacista di Kiev con la passione per il giardinaggio – penso a Dario e al suo gesticolare magico: si sarebbero intesi al volo. E penso a Franca, che per le donne, per gli ultimi ha speso la sua vita. Ad Alcatraz la conversazione è un mistero buffo: alla fine si capiscono sempre, anche se il traduttore ogni tanto prende fischi per fiaschi e manda in tilt le comunicazioni. In una bella giornata di aprile incontro Liza, sotto una pioggia di petali di ciliegio. Ha 29 anni, è qui con la mamma e la sua piccola Zlata, tre primavere di sorrisi e codini che si disfano durante i giochi. Arriva da Bucha, suo marito Alex è un militare di carriera. Per tre giorni è rimasta con la figlia barricata in bagno: tutti i profughi raccontano le infinite ore sulla tazza del wc, perché il bagno con i muri spessi è la stanza più sicura della casa nei palazzi che non hanno il seminterrato. Poi una notte ha capito che doveva scappare. Con le valige, il cane, sua madre e la sua bambina è scappata a piedi da Bucha a Irpin, dove c’erano treni di evacuazione. “Se sei una mamma con un bimbo piccolo hai la precedenza, il mio cane però è grande e allora ho dovuto aspettare il secondo treno”. Una bomba però ha distrutto i cavi elettrici della linea e sono scappati tutti nei sotterranei della stazione. È stato il momento peggiore, perché sembrava non esserci via di scampo. “Non credevo che saremmo riuscite ad andarcene. Per tre giorni sono rimasta lì, accampata, pensando che era la fine di tutto. Invece è arrivato un altro treno che per circolare non aveva bisogno delle linee elettriche. Nella concitazione dell’imbarco ho perso Stefi”. Ma Stefi, una femmina di alaskan malamut, è qui con noi, accoccolata per terra con la pancia in su e la pelliccia bianca a disposizione delle coccole dei bambini da cui si fa fare tutto con gioiosa rassegnazione. Stefano è partito il 7 marzo con suo fratello e Liza dopo che, grazie a un appello sui social, il cane è stato ritrovato: sono andati a prenderla a Sighetu Marmatiei, in Romania, lo stesso varco di frontiera da cui è partito il bus per Alcatraz. Stefi e Liza ora fanno la stessa terapia con i fiori di Bach, perché la notte non dormono. Mi mostra le foto che ha scattato durante la fuga e sono tutte versioni diverse della stessa immagine: macerie e cadaveri. L’ansia che leggo nei suoi occhi è quella di non essere creduta. Allora le chiedo di raccontarmi dove e quando le ha fatte. “La strada principale di Bucha non c’è più. Era il posto dove andavamo a passeggiare, ci incontravamo con gli amici. Non so se posso tornare a vivere in quel cimitero”. Alla fine della chiacchierata è lei che mi fa una domanda: “Perché la comunità internazionale nega la no fly zone? Non vedete che la morte arriva dal cielo?”. Poi vuol sapere del gas con cui l’Occidente finanzia Putin. Provo a spiegarle che cosa significherebbe la no fly zone e che per il nostro tessuto economico chiudere i rubinetti da un giorno all’altro sarebbe un suicidio. Fa sì con la testa, ma si capisce che non è convinta, perché dal suo punto di vista c’è molto di più da perdere. La parola pace non l’ho mai pronunciata con nessuna di loro: non so se per codardia, pudore o rispetto.

La parola casa
Alcatraz in apparenza è il luogo perfetto per ritrovare la tranquillità. Ma il silenzio a volte fa brutti scherzi. Me lo spiega Lena, 52 anni di mani che non smettono mai di contorcersi. Ha lo sguardo inchiodato alle scarpe, le rare volte in cui lo alza si fa fatica a guardarci dentro: c’è un dolore profondo e trasparente come i suoi occhi azzurri. È qui con tre dei suoi sei figli e tre nipoti: insieme a Oksana, Misha, Valentina, Sonia, Nastia e al piccolo Mishi, che a due anni è la mascotte del gruppo, forma il nucleo più numeroso. “È bellissimo sentirsi al sicuro, non dover stare in allerta. Ma qui è ancora più evidente che vivere in pace si può. Guardare i miei nipotini che giocano sereni mi fa ricordare quello che abbiamo vissuto”. Lena è un paramedico, lavorava sulle ambulanze ed è una delle due del gruppo che sa guidare. Arriva dalla regione di Kiev, ora il marito di Valia sta cercando di “aggiustare” il loro villaggio insieme agli altri uomini. “Dim” è un suono che sento spesso, capisco che vuol dire “casa”: non è strano che rimbalzi in continuazione nell’aria di Alcatraz. “Ho fatto molti debiti per comprare la casa. Devo tornare per pagare il mutuo”, spiega Lena scuotendo la testa. Sua figlia Valentina aggiunge: “Io resterei qui, se ci fossero delle possibilità di lavoro. Anche per i bambini”. Sanno che i bambini hanno bisogno di normalità, ma hanno paura di mandarli a scuola da soli. Mattea sta cercando di organizzare le cose con la scuola materna dove sono iscritti i suoi due gemelli di quattro anni in modo che le donne possano stare in un’aula vicino, almeno per i primi tempi. Anche Lena e Valia sono preoccupate di non essere credute, mostrano le foto della loro personale distruzione, in un rituale macabro che si ripete puntuale. “I russi ci stanno uccidendo, fanno cose terribili”. Lena adesso piange e le parole inciampano. “Nessuno ci aveva avvertiti. Anche se te lo racconto, tu non puoi immaginare cosa si prova quando arrivano i soldati, quando vedi un bambino morto abbandonato in un giardino. Tutto quello che in una vita intera hai fatto e sognato sparisce”. Noi eravamo come voi. È un’altra frase ricorrente, da cui bisogna difendersi perché è impossibile non sentire la colpa della salvezza.

Il tempo delle mele
Quelli per cui è più difficile sono i ragazzini, che oltre al trauma della guerra portano sulle spalle l’impaccio dell’adolescenza. Si sentono in gabbia, anche se ad Alcatraz ci sono boschi e sentieri, fiori profumati e giorni di sole da cui farsi baciare in faccia. Hanno lasciato la scuola, gli amori, gli amici, soffrono moltissimo la vita in comune che è fatta di orari stabiliti e turni per la cucina e il ristorante. Soffrono la lontananza dalla città, da una palestra o da un bar, più di tutto soffrono la lontananza dai loro padri e dalle certezze. Ogni giorno chiedono “Quando torniamo?”, un po’ come fanno i bambini durante un viaggio in auto. Le poche parole che spiccicano sembrano uscite dal diario di Anna Frank, si avverte la difficoltà imbarazzata di una situazione imposta, la rabbia dell’impotenza, la fatica di ore senza sorprese e sempre uguali. Però negli occhi hanno la sfrontatezza della speranza: anche se tutto è in frantumi, per loro tutto è ancora intero. Per fortuna c’è Matilde, la figlia più grande di Mattea, che grazie ai 17 anni e all’inglese con loro riesce a parlare, che tra simili ci si capisce sempre. Anche nei casi di scontrosità più infrangibile. Tipo Misha, un inavvicinabile quindicenne. Attraversa le stanze degli adulti con un passo veloce che è quasi una corsa: non sia mai che qualcuno gli voglia parlare. Anche ora sta cercando Albina, che sembra Sophie Marceu nel Tempo delle mele con il caschetto castano e un broncio irresistibile. Nei giorni del Covid – si sono ammalati in tanti anche se senza sintomi importanti – s’incontravano di nascosto. Intanto Nasar – è il suo turno – riordina la sala del ristorante con gli occhi bassi e nessuna voglia di scambiare convenevoli. Ad Alcatraz, insieme a mille scatole di solidarietà, è arrivato anche un sacco da boxe per lui. Tutti i giorni si allena, e chissà cosa direbbe il sacco se potesse parlare. Sua madre Irina, un tecnico di laboratorio di Kiev, mi spiega che è stato lui a scegliere di venire in Italia, quando in Romania avevano davanti diverse possibilità: “Gli piace la pizza”. Alla parola pizza – filante di mozzarella e sogni di un occidente “visto e immaginato in diecimila film” – finalmente sorride. Anna arriva a tarda sera per ultima, non ha mai tempo: deve studiare. Fa la dad con il suo collegio, un istituto di eccellenza, ma mentre il bollitore borbotta spiega in un inglese frettoloso che non è affatto come stare a scuola, dovrà recuperare molto. Vuole diventare architetto: magari la laurea in Europa la prenderebbe volentieri, però la destinazione finale è l’Ucraina. Sulla porta dice: “Sai, devo tornare per ricostruire”.

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