Dare l'esempio

La mattanza di cetacei alle Faroe ci inorridisce: siamo sicuri di essere migliori di loro?

Non ci spaventiamo di fronte alla morte di 100 milioni di squali, né per i milioni di maiali, mucche, agnelli e polli che vivono in condizioni inaccettabili per essere poi macellati. Eppure ci sentiamo superiori ai “barbari” che hanno ammazzato brutalmente 1200 delfini per un rito

Di Rosalba Giugni, presidente Marevivo, e Ferdinando Boero, vice Presidente Marevivo
21 Settembre 2021

“Quando ero ragazzo, a Genova, i filetti di delfino affumicato (il mosciame) erano un ingrediente raffinato della cucina ligure, con usi simili a quelli del tartufo – dice il Prof. Ferdinando Boero, vicepresidente di Marevivo –. Ho anche conosciuto l’ultimo cacciatore professionista di delfini, a Camogli. In Liguria era una tradizione uccidere i delfini e mangiarli. Poi si è capito che si può vivere bene anche senza questo tipo di ‘cultura’, la sensibilità ambientale è aumentata, e la cultura si è evoluta”.

Oggi non siamo più tanto convinti che sia “normale” gettare le aragoste vive nell’acqua bollente: la sensibilità verso gli animali è molto aumentata, anche per quelli che, un tempo, non evocavano compassione. Ai tempi di Melville, i capodogli come Moby Dick erano mostri cattivi che andavano uccisi.

La sensibilità verso i cetacei è quasi universale, ma in alcuni posti manca.

I giapponesi, ad esempio, continuano a cacciare balene per “scopi scientifici” e, se andate in Norvegia, per esempio al mercato del pesce di Bergen, troverete carne di balena. E la troverete anche nei menu dei ristoranti. Nei negozi si vendono graziose scarpette per bambini… fatte di pelliccia di foca.

Gli Inuit e gli Yupik, spesso chiamati collettivamente eschimesi, vivono ancora in modo tradizionale e la carne di cetacei e foche fa parte del loro regime alimentare che, viste le zone dove vivono, non può certo basarsi sull’agricoltura su ghiaccio. La caccia artigianale di questi popoli non ha grande impatto sulle popolazioni delle prede.

Ci sono però popoli che non vivono negli igloo e vanno a caccia in kayak, che continuano a cacciare cetacei in modo plateale, senza averne bisogno. Tra questi ci sono gli abitanti delle Faroe, un gruppo di isole tra la Scozia e l’Islanda con collegamenti politici con la Danimarca, ma indipendenti per le questioni interne.

I faroesi ritengono che la mattanza dei cetacei sia una sorta di marchio di fabbrica della loro cultura, come quella dei tonni nelle isole siciliane. La Danimarca lascia ai faroesi la responsabilità di queste attività. La caccia si svolge in modo standardizzato e rituale, con i cacciatori che stringono in una baia un gruppo di cetacei e poi li uccidono con coltelli e lance. Il mare si colora di rosso. Di solito le vittime sono globicefali, ma quest’anno sono stati 1400 delfini dai fianchi bianchi (Lagenorynchus acutus) a cadere in trappola. Dato che il quantitativo di delfini uccisi era superiore alle necessità alimentari dell’isola, molte carcasse sono state rigettate in mare.

Non esistono modi per obbligare un popolo ad abbandonare le sue tradizioni, se esse sono perseguite nel suo territorio. Gli attivisti a volte si frappongono tra i cacciatori e le loro vittime, ma non è facile arrivare alle Faroe, e chi si opponesse al “rito” probabilmente sarebbe trattato come un eventuale disturbatore di quello dello scioglimento del sangue di San Gennaro. Con la differenza che nel caso delle Faroe il sangue è quello dei delfini.

Come fermare questo scempio? Come in altri casi, ci sono accordi internazionali, ma non ci sono sanzioni per chi non li sottoscrive. Succede lo stesso con le emissioni. Non abbiamo neppure il potere economico di rovinare un business. Quando fu mostrato in tv il procedimento che porta alle produzione di pelli di foca, fu chiaro a tutti che erano i cuccioli a essere tramortiti a bastonate e scuoiati ancora vivi mentre le madri cercavano di salvarli. Le foche hanno pelliccia quando sono giovanissime, poi si proteggono dal freddo con il grasso. Nessuno comprò più le pellicce di foca, il mercato crollò, e la mattanza dei cuccioli fu molto ridimensionata.

Ma cosa potremmo boicottare? Si potrebbe estendere la protesta alla Danimarca e dire: non compriamo più prodotti danesi fino a quando la mattanza dei delfini continuerà. Ma il governo danese non ha voce in capitolo negli affari interni delle Faroe, e la economia delle isole è abbastanza autarchica.

In Inghilterra fa parte della “cultura” locale far sbranare le volpi da branchi di cani. Noi siamo il paese della caccia agli uccellini.

Non abbiamo il potere di fermare queste atrocità, neppure quelle di casa nostra. Ma siamo poi così sicuri di essere incolpevoli perché inorridiamo di fronte a questi spettacoli? C’è grande differenza tra uccidere e far morire? Il nostro inquinamento, prodotto della nostra “civiltà”, e anche la pesca con reti pelagiche, causa la morte di moltissimi cetacei, impigliati nelle reti, soffocati dalle plastiche che ingeriscono, avvelenati da sostanze inquinanti. La loro morte è più lenta di quella dei delfini martiri delle Faroe, ma avviene lontano dai nostri occhi.

Non inorridiamo di fronte alla morte di 100 milioni di squali, uccisi ogni anno solo per strappargli le pinne, cibo richiesto dai mercati orientali, e rigettati vivi in mare. Non inorridiamo per i milioni di maiali, mucche, agnelli e polli che vivono in condizioni inaccettabili per essere poi macellati senza possibilità di scampo.

La transizione ecologica ci indica la strada che tutta l’umanità deve percorrere per continuare a vivere su questo bellissimo Pianeta, che prevede oltre alla transizione energetica e all’economia circolare anche una transizione alimentare da effettuare immediatamente.

Non ci possiamo più nutrire di animali pescati industrialmente in mare né di quelli di allevamento in condizioni non sostenibili per il Pianeta, il loro consumo smodato impoverisce il suolo, l’acqua e l’aria.

Vedere quei “barbari” alla Faroe perpetrare quel massacro potrebbe farci sentire “superiori”, più umani. Ma siamo sicuri che sia davvero così?

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