Giustizia sociale: Letta la invoca (a bassa voce)

29 Maggio 2021

Ecco a noi la ripartenza. Mario Draghi, chiamato a salvare l’Italia nella sua veste di “dittatore benevolo” (copyright Michele Salvati), procede imperterrito a nominare nei posti-chiave del sistema economico i fedelissimi della stagione delle privatizzazioni. Questi tecnocrati cresciuti alla sua scuola, fra il ministero dell’Economia e la Banca d’Italia, per i prossimi cinque anni, quale che sia il governo espresso dal futuro Parlamento, continueranno a imporgli i vincoli del Recovery Plan, pena l’interruzione dei finanziamenti provenienti dall’Ue.

È all’interno di questa corsia obbligata che il nuovo segretario del Pd, Enrico Letta, si propone di ritagliare uno spazio politico di sinistra, a partire da un’ammissione tanto grave quanto veritiera: “Quasi vergognandoci di pronunciare l’espressione ‘giustizia sociale’, abbiamo smarrito l’aspirazione stessa al progresso, non vedendo che intorno a noi si consumava invece un regresso”. Sono parole contenute nel suo libro Anima e cacciavite (Solferino editore) che sanciscono il riconoscimento di una colpa storica: approdata al governo del Paese, la sinistra è venuta meno alla sua missione originaria di promozione degli interessi delle classi sociali meno abbienti. Che si ritrovano impoverite e meno tutelate rispetto all’epoca in cui i loro partiti di rappresentanza stavano all’opposizione ma erano ben radicati nella società.

Letta non viene da Marte. Ha frequentato con familiarità le stanze dei ministeri e delle università in cui Draghi ha reclutato la sua rispettabile schiera di alti burocrati. E dunque, meglio di chiunque altro, sa che il perseguimento della giustizia sociale lo porrà inevitabilmente in rotta di collisione con chi ha sempre agito con altre priorità: crescita, pareggio di bilancio, sintonia con gli investitori finanziari e con i grandi gruppi capitalistici.

In questi giorni è bastato che Letta proponesse una sovrattassa sulle eredità dai 5 milioni in su, e insieme ai sindacati chiedesse maggiori tutele dei lavoratori in materia di appalti, per evidenziare questa diversità di vedute. Per non parlare della spinosa questione del blocco dei licenziamenti almeno fin quando verrà finalmente varata la riforma degli ammortizzatori sociali. È solo l’antipasto di una divaricazione inevitabile, ma bastante perché sull’allievo di Nino Andreatta piovessero da destra ridicole accuse di comunismo; mentre la corrente renziana del Pd si è divertita a coniare per lui il soprannome “tupamaro”. Non illudiamoci: ammesso che sia ancora possibile, il recupero di una dimensione “sociale” del Pd comporterà lacerazioni e fuoriuscite; perché spiazza le componenti governiste da anni insediate nei palazzi del potere nonostante una raffica di sconfitte elettorali.

Nel suo libro, Letta mostra di aver capito quale errore sia stato “derubricare il conflitto sociale a orpello novecentesco” e “vivere le disuguaglianze come un prezzo da pagare”. Ma lì si ferma, senza trarne le conseguenze. Quando si accontenta di definire il riformismo “un metodo, non un fine in sé, né tanto meno un’ideologia”, sottovaluta la perdita di idealità derivata da questa visione meramente pragmatica. Poco dopo aggiunge che il riformismo “è un ricalibrare le energie del decisore”. Davvero poca cosa, quasi che si trattasse di un codice riservato a chi comanda e non un movimento di lotta capace di rendere protagoniste le masse degli esclusi.

Se davvero Letta vuol fare i conti col riformismo degli anni Novanta ridotto a “nostra zona di comfort ideologico”, non può limitarsi a individuare nel sovranismo della destra il suo unico avversario. Chiedere a uno come lui di riesumare la terminologia della lotta di classe sarebbe contronatura, anacronistico. Ma neppure può pretendere di rifugiarsi nella visione superata dell’interclassismo democristiano. E allora fa impressione che delle 137 pagine del suo libro neanche una sia dedicata a un giudizio sul capitalismo italiano. Non un cenno critico ai nostri imprenditori e ai nostri manager, non un solo nome di quelli che contano. Come se la mancata crescita della nostra economia, e il contemporaneo arricchimento di chi ha vissuto di rendita o esportato altrove i suoi investimenti, non fosse uno degli ostacoli da rimuovere per una ripartenza su basi più eque.

Se, tra gli altri, il Pd ha reciso i suoi legami con le organizzazioni sindacali (a loro volta in crisi) lo si deve anche al fatto che da decenni il padronato – altra parola proibita che invece andrebbe recuperata – ha strappato leggi vantaggiose in materia di flessibilità del lavoro, avvantaggiandosene, decurtando i salari, ma senza porre alcun freno alla retrocessione del Paese.

Più che giusto porre l’accento sull’istruzione dei giovani e sulla formazione permanente. Ma se aggira questo scoglio, il riformismo si riduce a flebile lamento.

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