Habermas rifiuta il premio dai torturatori arabi: la scelta più dignitosa

6 Maggio 2021

Dunque si può. Leggo che Jürgen Habermas, sociologo e filosofo tedesco, uno dei più eminenti intellettuali europei, tra i massimi protagonisti della Scuola di Francoforte, ha rifiutato un ricco premio, 225 mila euro, intitolato a Sheikh Zaied, ex sultano degli Emirati Arabi Uniti, destinato ogni anno a personalità mondiali della cultura. La ragione per cui il 91enne professore non si presenterà a ritirare il premio ad Abu Dhabi è la condizione dei diritti umani negli Emirati, dalla tortura alle incarcerazioni dei leader dei movimenti civili. In realtà, pare che in un primo tempo Habermas si fosse dimostrato disponibile ad accogliere il riconoscimento. Poi un’inchiesta dello Spiegel lo ha convinto del contrario.

È certo edificante vedere, una volta ancora, che lo spirito della democrazia non ha età. Ma stavolta nel gesto del vecchio studioso c’è qualcosa in più. Ed è il contesto. Un contesto in cui i diritti umani e civili vengono calpestati impunemente a ogni longitudine. Davanti agli Stati, davanti all’Onu, davanti all’opinione pubblica mondiale. Con pochi e meritori sussulti di indignazione. Tutt’intorno a noi, Europa e Mediterraneo. E oltre, in ogni direzione. Ungheria, Polonia, Egitto, Libia, Turchia, Siria, Arabia Saudita, ma anche – e sono solo esempi – Etiopia, Somalia, Afghanistan, Cina, Russia. A causa degli Stati, così come delle organizzazioni che si fanno Stato, si tratti delle milizie dell’Isis o dei cartelli messicani.

Diritti della donna e dei minori, dei migranti e dei giornalisti, dei lavoratori e degli intellettuali. Diritto all’acqua, alla salute, al lavoro e alla libertà, all’ambiente e all’identità etnica o alla memoria. Un elenco da capogiro di privazioni e di violenze. Certo che c’è il progresso, certo che non è tutta una catastrofe. Ma colpisce che nell’era della globalizzazione l’unica cosa che davvero non si globalizza siano i diritti. Quelli possono essere schiacciati senza che moti possenti si alzino in protesta dal mondo istruito e democratico. Non dalle istituzioni, smunte di storia gloriosa dalla geopolitica e dalle sue leggi, così che perfino ricordare il genocidio armeno diventa impresa coraggiosa. Ma nemmeno dai partiti o ciò che dovrebbe loro assomigliare. Ci si sente inutili osservatori di stelle, impotenti lettori di guerre e di ingiustizie.

L’assenza di un’autorità mondiale che imponga il rispetto dei diritti sanciti in decine di Carte solenni dovrebbe pesare su tutti ma pare non sia un problema. Abbiamo inventato un linguaggio politicamente corretto che sconfina spesso nel ridicolo, in questa nostra gara cicisbea a diventare più raffinati, sempre più evoluti nel lessico formale, mentre i fatti, crudi e terribili, non ci vedono intervenire neanche in sogno. Davanti al mondo si riduce l’Eufrate a un torrente, si minaccia di confiscare il Nilo, si avvelenano i fiumi in Nigeria come in Amazzonia. L’età dei diritti, diceva Norberto Bobbio. Le loro nuove generazioni, scriveva Stefano Rodotà. Forse ne siamo così sazi, nei nostri minuscoli mondi geografici e professionali, da non renderci conto di questa bugia della storia, di questo doppio binario che li rende sempre più affermati e sempre più negati. Il fatto è che l’aumento vorticoso delle disuguaglianze non può che riflettersi in divari crescenti di potere. E il potere e il diritto notoriamente non si amano, stanno tra loro in contesa perenne.

Nel cuore dell’Europa, nelle famose patrie del diritto, si discetta d’altro. Per la Francia i diritti umani sono quelli dei “nostri” terroristi, che scuotono le coscienze parigine ben più che le armi vendute all’Egitto di Regeni, di Patrick Zaki e mille altri. Per l’Italia i diritti umani sono quelli dei boss mafiosi liberati a colpi di false perizie mediche e di corruzioni giudiziarie, mentre nel Mediterraneo si consuma la strage silenziosa. Un collegio arbitrale con base all’Aja ha chiesto di assolvere la ex Texaco, già condannata dalla giustizia ecuadoriana con l’accusa di avere intossicato un lago amazzonico causando la scomparsa di due comunità indigene.

Jürgen Habermas sembra reintrodurre di colpo la grandiosità del diritto. Altri forse avrebbero trovato le migliori giustificazioni per accorrere alle celebrazioni. Se non lo prendo io, il premio, lo prende un altro. Andrò lì ma terrò un memorabile discorso sui diritti umani. La cultura e l’arte affratellano (come affratellava lo sport ai mondiali di Argentina, mentre i colonnelli facevano gettare giù vivi dagli aerei migliaia di giovani…). Ha fatto la scelta più dignitosa, quella che oltre alla nostra ammirazione dovrebbe accendere il desiderio che la sbronza di potere e indifferenza ceda il passo a una nuova generazione di giusti. Che prendano nelle proprie mani la globalizzazione e ne facciano un’altra cosa.

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