La terapia degli anticorpi

La cura monoclonale c’è, ma le Regioni non la usano

Somministrata a meno di duemila pazienti, ancora ferme ben 38 mila dosi. E Figliuolo ne annuncia altre 150 mila

12 Aprile 2021

“Li abbiamo somministrati a 22 pazienti, sono guariti tutti”. Esulta Francesco Menichetti, responsabile del reparto di malattie infettive dell’Ospedale di Cisanello, provincia di Pisa. L’Edificio 13 è l’hub di riferimento per la sperimentazione clinica delle terapie anticorpali: lì è stato sperimentato per la prima volta in Italia il monoclonale di AstraZeneca, la somministrazione è poi partita in tutta la regione dopo l’arrivo dei monoclonali della Eli Lilly. L’entusiasmo si ferma però davanti ad altri numeri: la Toscana dal 23 marzo ha ricevuto 1.080 fiale ma ne ha somministrate soltanto 239. Ed è tra le regioni più “virtuose”: la Calabria, con 12 mila positivi e 500 ricoverati, ha trattato un solo paziente, il Molise nove, l’Emilia-Romagna si è fermata a quota 21. L’impressione è che la macchina non sia proprio partita, mentre altre regioni corrono come il Veneto con 372 dosi e il Lazio con 282 (la classifica è a fianco). Nel frattempo 38 mila dosi acquistate, anziché curare i malati, restano nei frigo.

Questo dicono i dati del monitoraggio Aifa sui “Centri abilitati mAb Covid-19”, le strutture sanitarie autorizzate al trattamento dall’inizio di marzo. Il Fatto ha analizzato l’ultima estrazione che sarà diffusa a breve sul sito dell’Agenzia del Farmaco. Risale al 9 di aprile ed è stata presentata venerdì alle regioni e poi condivisa con il ministero della Salute e la struttura Commissariale per l’emergenza, non senza preoccupazione. Per quanto limitata a un mese scarso, la serie storica dai dati sul consumo indica che finora le Regioni hanno utilizzato un quantitativo minimo rispetto ai farmaci distribuiti: meno del 5%. Il tutto a tre mesi dall’autorizzazione in emergenza firmata dal ministro Roberto Speranza, con le terapie intensive tornate a riempirsi. Ma i vaccini a singhiozzo fanno scandalo, il ritardo della campagna sui monoclonali che riducono il rischio di ricovero passa stranamente sotto silenzio.

È partita ai primi di marzo, quando l’Italia ha acquistato 40 mila dosi. Il generale Francesco Paolo Figliuolo, appena insediato, aveva annunciato l’acquisto di altre 150 mila ma di queste non si ha notizia. Le somministrazioni di quelle disponibili procedono però a rilento, con grandi differenze da Regione a Regione. Il Piemonte ha garantito 114 prestazioni, la Campania 90, poi Marche (86) e Liguria (80), la Sicilia (63) fino al Molise (9). Con una media di 100 al giorno, il totale nazionale per ora non arriva a duemila. Per somministrare tutte le dosi promesse, a questo ritmo, non basteranno sei anni. Che cosa rallenta l’uso dei monoclonali, unica cura autorizzata al mondo contro il Covid-19?

La questione di fondo non è più se e quanto funzionino, perché lo si rileva dagli esiti clinici favorevoli laddove – non più solo all’estero – sono stati eseguiti trattamenti. E non è neppure la complessità della loro somministrazione: che siano farmaci ospedalieri da iniettare con fleboclisi in strutture attrezzate, che richiedano un forte collegamento tra ospedale e territorio lo si sapeva da mesi e che sia fattibile lo dimostrano i numeri delle regioni che sono più avanti nella classifica. Il punto, semmai, è proprio l’incapacità delle altre di mettere a sistema il loro utilizzo. A differenza dei vaccini, infatti, il criterio di ripartizione non è la popolazione ma il fabbisogno terapeutico dei pazienti “eleggibili” al trattamento: persone a rischio con sintomatologia da lieve a moderata, precocemente diagnosticata, che vanno individuati, inseriti nel protocollo sanitario e avviati ai centri per la somministrazione. I dati di Aifa dicono però che su 368 centri abilitati al trattamento solo un terzo (120) finora ha effettivamente prescritto una terapia anticorpale.

Teoricamente le dosi dovrebbero essere assegnate in base all’andamento dei contagi e alla capacità di usarle messa in campo dalle regioni. Il monitoraggio sull’incidenza e sul consumo evidenzia come il secondo aspetto sia a dir poco preminente sul primo. L’Emilia-Romagna, ad esempio,ha trattato solo 21 pazienti, vale a dire sei volte meno del Piemonte che ha la metà dei positivi e dei malati in isolamento. Va anche detto che proprio la Regione di Stefano Bonaccini è però suscettibile di un rapido scatto: è l’unica ad aver stilato un protocollo per la somministrazione domiciliare, cioè direttamente a casa del malato, che potrebbe cambiare le cose. Sempre che altre regioni la seguano.

Lo scarso quantitativo di dosi disponibili, unito al ritardo delle regioni nell’usarli, costringe l’Agenzia del Farmaco a limitarne il consumo a scapito di quelle che viaggiano invece spedite coi trattamenti e da giorni fanno pressione, comprensibilmente, per avere più farmaci di quelli assegnati. Le dosi vengono distribuite direttamente dai produttori ai centri autorizzati, ma in quantità contingentate per evitare che le regioni rimaste indietro, una volta andate a regime, restino senza. Questa “politica del rubinetto” però, fatalmente, rallenta tutta la macchina: nell’ultima settimana le prescrizioni nazionali sono aumentate ma di appena 80 dosi (da 567 a 647) e in sette Regioni sono addirittura calate: l’Umbria, ad esempio, è passata da 17 a 10, il Veneto ne ha fatte 17 meno della settimana precedente. Tutto questo appare già poco comprensibile ai medici. Inaccettabile ai malati cui le dosi negate potrebbero salvare la vita. Se solo non rimanessero nei frigo.

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