Il racconto inedito

Ho barattato il mio corpo con la vita. Ma i nazisti non mantengono le promesse

Scrittrice, sag­gista e docente di lettere, Marilù Oliva torna in libreria con un romanzo che affonda la penna tra le umane lacerazioni, una tragedia vecchia di decenni che pure sembra non volersi estinguere: è cominciata nel Sonderbau, il bordello del cam­po di concentramento di Buchenwald. L'autrice ha donato questo racconto inedito ai lettori di “A parole nostre”

Di Marilù Oliva
20 Gennaio 2021

Per quante generazioni dura il male? “Biancaneve nel Novecento” è un romanzo duro e poetico che percorre tutto il secolo e racconta, attraverso gli occhi di due donne, i segreti nascosti delle famiglie, il corpo femminile e la violenza a cui è da sempre sottoposto. Tra tutte, il bordello del campo di concentramento di Buchenwald, una realtà tra le meno trattate nell’ampia letteratura sulla Seconda guerra mondiale. L’autrice, Marilù Oliva, ha scritto per noi questo racconto.


Mi avevano promesso che dopo sei mesi sarei stata libera. Per questo ho scelto di trasferirmi al Sonderbau, il bordello di Buchenwald. Dentro all’inferno del lager di Buchenwald esisteva un altro inferno, più piccolo e riservato, progettato ad hoc da Himmler per aumentare la produttività dei prigionieri. Abitato da donne che sarebbero state usate come manichini vuoti e visitato da uomini che ne avrebbero approfittato.

Nessuno mi ha costretta ad andarci, almeno con la forza. Prima del bordello, come tutti i condannati, noi ragazze vivevamo in un girone dove i giorni si succedevano replicati, sbalorditivi soltanto per la tipologia di nuovi supplizi. Sveglia alle 4.30, ci alzavamo stanche e infreddolite ma dovevamo scattare, pronte ad affrontare fino a quindici ore di lavoro. Lesinavano l’acqua, spesso bloccata nelle tubature ghiacciate, pane per colazione e poi l’appello alle 5.30. In quel frangente noi lo sapevamo: succedeva sempre qualcosa di terribile. Qualcuno ci rimetteva la pelle o veniva selvaggiamente malmenato. Quindi cominciava la catabasi, la discesa verso fatiche disumane, percosse, umiliazioni. La fame ci attanagliava in una maniera che non sarebbe possibile descrivere. Era compagna costante, una mano che rovistava in continuazione nello stomaco e si allungava persino nei sogni. Non era raro, di notte, sentire i movimenti delle mascelle delle altre detenute, che sognavano di masticare. E il freddo… il freddo mi si è sedimentato nelle ossa fino ad oggi, come un rivestimento di acciaio.

Così quando la mia kapò Gretel – donna potentissima, che nessuna avrebbe mai dovuto inimicarsi – mi convocò e mi chiese se volessi cambiare vita, io valutai la proposta. Pareva che il Sonderbau aspettasse solo me. Lei che era solita sorprenderci all’improvviso con manrovesci da capogiro, quella volta mi parlò con tono gentile, come se volesse ingraziarsi la mia fiducia:

Sarà per sei mesi soltanto, poi potrai andartene”.

“Verrò liberata?”

“Dopo sarai libera come il vento. E se fai la brava, magari ti daranno anche qualche soldino per il viaggio”.

“Sei mesi sono tanti…”, temetti che in quelle settimane avrei fatto in tempo a morire innumerevoli volte.

“Sei mesi volano, non te ne accorgerai nemmeno. Avrai il tuo letto. Un posto caldo dove vivere. Cibo garantito. Sigarette. E anche alcool a volontà”.

L’alcool, lo scoprii subito, serviva per stordire la nostra coscienza. Per far sì che non ci accorgessimo che stavamo lentamente marcendo. Per condurci altrove, distaccandoci dal nostro corpo, ridotto a esclusivo oggetto di godimento. Per non farci sentire la vergogna, abbigliate in quel modo indecente, con reggiseno e gonna corta, scarpe coi tacchi appartenute a chissà quale detenuta spogliata. Per far sì che non ci accorgessimo che quell’esistenza ci abbruttiva. Anche se ci era permesso farci crescere i capelli, lo squallore ci copriva di un velo di tristezza e l’alcool alla lunga ci gonfiava. Stavamo sopravvivendo senza accorgerci che era un lento sprofondare verso l’abisso. Per questo l’alcool divenne il nostro ossigeno.

Alcool per dimenticare il volto ossuto dei clienti che si davano il cambio ogni 15 minuti. Alcool per perdere il conto delle ore e per assopirci, di notte, seppur in sonni interrotti. Altrimenti non avremmo chiuso occhio. Perché lì dentro, anche se non ci mancava riparo e cibo, il male veniva depositato e amplificato. Per difendermi, io avevo ideato il mio calendario, scrivendo su un foglio rubato i mesi che sarebbe durata quella tortura. Ogni mattina estraevo il mio promemoria da sotto il materasso e mettevo una x sul giorno corrispondente. Mi ripetevo che la meta era sempre più vicina, dovevo resistere.

I detenuti che spendevano il loro buono con noi prima ci usavano velocemente, poi ci raccontavano le loro disgrazie, i maltrattamenti ricevuti, i cari persi. Gli ultimi minuti, invece, li utilizzavano per sbatterci in faccia il loro disprezzo, offendendoci con gli insulti più biechi. Ci odiavano di un odio profondo e invidioso, ci ritenevano delle privilegiate.

“Perché lo fai?”, mi chiese una volta un austriaco, cui i cani dei tedeschi avevano strappato a morsi un pezzo di guancia e la punta del naso.

Cosa avrei potuto rispondergli, mentre si stava rivestendo? Lo faccio perché non avevo molte altre alternative? Perché vedevo le mie compagne di blocco morire di deprivazioni, stenti e botte, un giorno dopo l’altro? E tu perché mi fai questa domanda così ridondante di un giudizio morale? Risposi solo: “Perché tra quattro mesi sarò libera”.

Lui scoppiò in una risata. Allora recuperai il mio calendario e glielo mostrai. Era la mia prova. L’austriaco non perse il sorriso dal suo volto deturpato: “Hai bevuto la loro storiella, eh? Quante ne hai viste liberate?”. “Ti ho detto che mancano solo quattro mesi, vedi? Ho già cancellato i primi due”, dissi strozzando il pianto in gola. “Senti, bella, io lavoro ai forni crematori. Ne sono arrivate altre, di tue compagne, che lavoravano qui. Prima vi strizzano quanto possono, poi, quando non servite più, vi mandano all’infermeria, per usarvi nei loro esperimenti. E l’ultimo passaggio è da noi”.

Ripensai a quando Gretel mi aveva convinta. Ero così ingenua e non mi aveva sfiorato il sospetto della menzogna né che avrebbe guadagnato qualcosa da un mio sì. Come avevo potuto farmi imbrogliare tanto stupidamente? Anche se a casa non avevo mai conosciuto il mondo, nel campo di concentramento avevo capito subito che nessuno deve fidarsi mai di nessuno.

Continuai tuttavia a cancellare i giorni. Completai il calendario e nulla cambiò. Ma quando, undici mesi dopo, gli angloamericani ci liberarono, volli portare con me quel foglio stropicciato a cui mi ero aggrappata disperatamente. Perché, se ero riuscita a sopravvivere tra quelle brutture, era stato per il barlume di speranza che mi aveva cullata tra quei giorni cancellati.

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