L’altra faccia di Pavese. Fu fascista? No, solo “poeta”

70 anni fa la morte. Esce “Il taccuino segreto” tanto bocciato da Calvino

Di Massimo Novelli
27 Agosto 2020

Settant’anni fa, nella sera del 27 agosto 1950, Cesare Pavese metteva fine con il sonnifero alla sua non lunga e tormentata esistenza, dato che era nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe. Si uccise in una stanza dell’Hotel Roma di Torino, un albergo da viaggiatori, a pochi metri dalla stazione dei treni di Porta Nuova. Lasciava scritto nel biglietto d’addio di non fare “troppi pettegolezzi”. Invece i “pettegolezzi” non lo lasciarono più, mescolandosi, da allora, alla pubblicazione degli inediti e del diario Il mestiere di vivere, e alle rivelazioni sui suoi amori infelici. Tutto ciò ebbe una appendice persino scandalosa quando, l’8 agosto 1990, il critico Lorenzo Mondo pubblicò su La Stampa un frammento di diario assolutamente sconosciuto dello scrittore piemontese. Risalente al 1942-1943, il block-notes vergato da Pavese riportava giudizi favorevoli al fascismo e al nazismo, con affermazioni sconcertanti come questa: “Tutte queste storie di atrocità naz. (iste) che spaventano i borghesi, che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione franc. (ese) che pure ebbe la ragione dalla sua? Se anche fossero vere, la storia non va coi guanti. Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci”.

La pubblicazione sul quotidiano di Torino sollevò un mare di polemiche, e ci furono tentativi, a destra, di appropriarsi di un intellettuale che, nonostante le contraddizioni già emerse dell’uomo e dello scrittore, era stato incasellato nell’antifascismo e nella sinistra. Si seppe inoltre che il frammento di diario era stato consegnato a Mondo da Maria Sini, la sorella dell’autore di La bella estate, nel lontano 1962, e che Italo Calvino aveva sconsigliato vivamente la divulgazione.

Mai compreso pertanto nelle opere pavesiane e rimasto nei cassetti prima dell’uscita su La Stampa per quasi trent’anni, adesso Il Taccuino segreto di Pavese è stato pubblicato integralmente, e per la prima volta in un libro, da Nino Aragno (pagine 118, euro 25), in una edizione curata dall’italianista Francesca Belviso, con un’introduzione dello storico Angelo d’Orsi e una testimonianza di Mondo. C’è inoltre un’antologia degli interventi sui giornali che fecero seguito allo scoop di La Stampa: da Giancarlo Pajetta ad Alessandro Galante Garrone, da Pierluigi Battista a Franco Ferrarotti, da Natalia Ginzburg a Gianni Vattimo. Proprio in alcuni di quegli scritti, al tempo letti forse sbadatamente, c’era già la chiave per comprendere il Pavese presuntamente fascista e ammiratore dei tedeschi, e per riflettere sulla personalità “bifronte” dello scrittore e sulla sua appartenenza, nel bene e nel male, alla grande cultura europea del Novecento: tragica cultura di un secolo tragico. Come ora emerge bene, nel volume di Aragno, dai saggi di Angelo d’Orsi e della Belviso.

Fu Galante Garrone, il “mite giacobino” della Resistenza, a cogliere e a descrivere con lucidità l’essenza vera di Pavese. Una sera, dopo la Liberazione, scrisse, che “non so se Giulio Einaudi o un altro propose quasi scherzosamente ai presenti di indicare su un biglietto, in breve, le adesioni o gli orientamenti politici di ognuno di loro. Ci fu chi scrisse Pci, un altro Psiup, altri Pda o Pli. Pavese scrisse soltanto P; e a chi gli domandava che cosa volesse dire, rispose sorridendo: poeta”. Era un poeta, non un politico, e credeva che ai poeti fosse concesso tutto: il mito, il destino e pure non nascondere a se stesso, in un certo periodo della vita, ciò che milioni di italiani e di tedeschi avevano praticato in maggioranza schiacciante fino al 1942-’43: l’adesione al nazifascismo, alla guerra, alla brutalità.

Era un poeta e quindi, pavesianamente, un eterno ragazzo. E come i ragazzi, sostenne Natalia Ginzburg, “usava scrivere tutto quello che gli passava per la mente”. In La casa in collina, del resto, un romanzo “revisionista”, in cui espresse pietà per tutti i morti, anche per i fascisti, non scrive forse che “solamente l’uomo fatto sa essere ragazzo”? Come disse un suo amico, ricordato dalla Belviso, “Pavese possedeva due anime, o meglio, due nature, due forze effettive fra loro contrastanti – Pavese e l’anti-Pavese – Pavese e il suo paradosso”. Era la sua debolezza, ma pure la sua forza, il suo essere europeo, come lo fu un narratore in apparenza distante da Pavese: il fascista Pierre Drieu La Rochelle. Cioè l’autore, non a caso, di un diario indimenticabile sulla guerra e sulla guerra civile.

Debolezza, forza, ma anche scacco. Lo “scacco di Pavese”, insomma, che Angelo d’Orsi ripropone nel senso che “non riguarda soltanto il suo fallimento privato, essenzialmente amoroso, bensì il suo complesso, irrisolto rapporto con la società, con la politica, con l’umanità stessa”. Tutte cose che fanno, poi, la perennità di Pavese, e il suo essere, parafrasando Arthur Rimbaud, “assolutamente moderno”.

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