GoFundMe: donazioni anti-virus e business

16 Marzo 2020

Nella gara di solidarietà a sostegno di chi si batte contro il Covid-19 spicca per volumi e visibilità la raccolta fondi lanciata da Chiara Ferragni e suo marito Fedez: in meno di cinque giorni hanno raccolto 3.9 milioni di euro per rafforzare la terapia intensiva dell’Ospedale San Raffaele di Milano.

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Come tanti altri, Ferragni e Fedez hanno usato la piattaforma on line GoFundMe che ha annunciato di contribuire con altri 250.000 euro alla raccolta. “Siamo orgogliosi di poter supportare e ospitare sulla nostra piattaforma un’iniziativa tanto lodevole”, ha scritto nel suo blog sul sito del Fatto Quotidiano Elisa Liberatori Finocchiaro, manager per il Sud Europa di GoFundMe. Ma da dove arrivano quei 250.000 euro? E chi decide come usarli?

Sulla home page GoFundMe promette di organizzare raccolte fondi con una tariffa dello 0 per cento. Ma c’è un asterisco che, in sostanza, chiarisce che il costo non è affatto zero. Quando si prova a lanciare una campagna dagli Stati Uniti, un attimo prima della partenza arriva questo messaggio, più dettagliato dell’equivalente italiano: “Non preleverai personalmente i fondi dalla tua campagna. Invece, i fondi saranno inviati direttamente sul conto PayPal dell’ente benefico da te selezionato tramite PayPal Giving Fund” (dall’Italia il messaggio è meno dettagliato). Il servizio di PayPal, un sistema di pagamento on line, “consegnerà i fondi mensilmente, intorno al 25 del mese”. E qui arriva il costo: 2,9 per cento sulle transazioni, più 30 centesimi. Se ci sono bonifici mensili, quindi, ogni mese la piattaforma GoFundMe trattiene il 2,9 per cento. Che la percentuale incorpori un margine di guadagno lo dimostra il fatto che GoFundMe offre anche degli sconti: negli Stati Uniti, per esempio, c’è una tariffa promozionale dell’1,9 per cento. Dei 3,9 milioni versati da chi ha aderito alla campagna dei Ferragnez, a GoFundMe resteranno 131.100 euro, quando i soldi passeranno dal conto della piattaforma a quello del San Raffaele.

Chi ha donato qualcosa avrà notato che, al momento di contribuire, GoFundMe applica in automatico un ulteriore ricarico del 10 per cento con questa motivazione: “GoFundMe continuerà a offrire i suoi servizi gratuitamente, finanziandosi grazie ai donatori che lasceranno qui un libero importo”. GoFundMe non è in realtà gratuito e neppure l’importo è così libero: per evitare il contributo alla piattaforma, l’utente deve scorrere il menu, scegliere “altro” e aggiungere manualmente “0”, altrimenti come alternative ha 5 e 15 per cento. Diversi studi recenti dimostrano l’efficacia di questi dark patterns, opzioni di default proposte all’utente per spingerlo ad adottare comportamenti che, se lasciato libero, non sceglierebbe. In questo caso finanziare anche GoFundMe invece che soltanto l’ospedale dove si combatte il Coronavirus.

Se la metà degli utenti che ha donato alla campagna dei Ferragnez avesse lasciato il 10 per cento di donazione indicato al sito per metà della somma complessiva, GoFundMe avrebbe incassato quasi 200.000 euro da quell’unica campagna, da sommare a quelli che trattiene al momento della transazione finale (il 2,9 per cento). Così si capisce da dove arrivano i 250.000 euro che la piattaforma ha poi donato di sua spontanea volontà al San Raffaele, restituendo di fatto una parte di quanto trattenuto dalle donazioni degli utenti.

Il Fatto ha chiesto a GoFundMe di fare trasparenza su quale è stato il margine finale della piattaforma nella operazione Ferragnez e, nello specifico, quanti utenti hanno scelto la “donazione” del 10 per cento pre-impostata dalla stessa piattaforma, che GoFundMe preferisce chiamare “mancia”. Un portavoce si è limitato a rispondere: “GoFundMe è una piattaforma gratuita: i donatori possono in maniera facoltativa lasciare una mancia, se lo desiderano, per il nostro servizio. Molte persone non lasciano la mancia e se qualcuno pensa di aver sbagliato può sempre chiedere il rimborso per la sua mancia”.

Quanto alla scelta di co-finanziare proprio la raccolta dei Ferragnez, la linea dell’azienda è questa: “Nella piena filosofia del Givesback (della restituzione per le campagne più meritevoli che vogliono cambiare il mondo) abbiamo previsto donazioni per un totale di 260mila euro per alcune campagne attivate sulla nostra piattaforma. Siamo anche noi in prima linea per aiutare l’Italia in questa emergenza”.

La beneficenza ha sempre avuto costi amministrativi e raccogliere soldi per le cause più nobili comporta spese che assorbono parte delle donazioni. La differenza è che di solito sono enti non-profit a sostenere tali costi (l’Unicef, l’Airc per la ricerca sul cancro…). Anche se questa informazione non la troverete da nessuna parte sul suo sito, GoFundMe è invece un’azienda tradizionale, una start up californiana nata per fare soldi offrendo un servizio utile, perché centralizza le raccolte fondi e riduce i costi per gli utenti. È basata a Redwood City, in California e ha meno di 30 dipendenti. Nata dieci anni fa da un’idea di Andy Ballester e Brad Damphousse, GoFundMe è una start-up matura, controllata da fondi di venture capital. Nel 2017 ha anche acquisito un concorrente, CrowdRise, diventato il ramo Charity dell’azienda, che offre servizi di raccolta fondi agli enti non-profit.

Visto che GoFundMe è un’azienda, quindi, è lecito chiedersi dove paghi le tasse. L’unica risposta chiara sembra essere: non in Italia. Tra le condizioni di servizio nel sito in italiano si legge che “Se sei un Utente che si trova al di fuori degli Stati Uniti ma non in Australia, il tuo contratto è con GoFundMe Ireland, Ltd., 70 Sir John Rogersons Quay, Dublin”, cioè in Irlanda, lo Stato in cui tutte le multinazionali cercano di far confluire i propri ricavi per tenerli al riparo dal fisco più esigente degli altri Paesi Ue.

Come tutte le piattaforme on line, poi, GoFundMe ha un business collaterale: l’acquisizione di preziosi dati personali. Se donate a GoFundMe, la piattaforma poi saprà praticamente tutto di voi, e se condividete la campagna via Facebook, per esempio, poi Facebook sarà autorizzata a fornire tutte le vostre informazioni (dal nome, alle foto profilo) alla piattaforma.

GoFundMe diventa proprietaria anche di tutti dati anche di quei donatori che aderiscono a campagne di enti non-profit lanciate sulla sua piattaforma. Sono dati preziosi, perché includono informazioni personali, rivelano la disponibilità economica, permettono di risalire a preferenze politiche o di consumo, e GoFundMe potrà usarli per fare praticamente tutto, incluso “rispondere alle richieste delle forze dell’ordine” e “sviluppare nuovi servizi”. E i limiti sono davvero pochi: “Potremmo di tanto in tanto anche inviare promemoria o messaggi correlati a te e, per tuo conto, a terzi, nel caso in cui sia ritenuto lecito dalla legge”.

In questo momento infrastrutture come GoFundMe sono preziose per sostenere chi combatte in prima linea il virus. Ma non è detto che tra i tanti costi da sostenere in questa emergenza vadano inclusi i profitti da garantire alla start up californiana e ai fondi che la controllano.

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