L’intervista

L’esperta Oms di comunicazione: “Usate i canali dei giovani per renderli responsabili”

Cristiana Salvi - La responsabile delle Relazioni esterne Oms Europa: “Accordo del governo con le piattaforme che ora rimandano ai link ufficiali”

9 Marzo 2020

“Un’epidemia è un evento in divenire. E anche la comunicazione deve essere fatta costruendo presso i cittadini il concetto di evoluzione e di incertezza”. Cristiana Salvi, responsabile Relazioni Esterne, Emergenze Sanitarie dell’Organizzazione mondiale della sanità Europa, è stata in Italia per una decina di giorni (fino a mercoledì), per una missione che includeva la comunicazione allo scopo di supportare il governo. Per la prima volta in un’epidemia, nel Covid-19 la comunicazione di rischio è davvero considerata un’area tecnica, “un intervento di sanità pubblica, che contribuisce alla risposta”. L’Oms a livello globale ha richiesto 640.361.927 dollari per rispondere all’emergenza, inclusi interventi di comunicazione. “Tutti i giorni facciamo briefing con la stampa per dare all’opinione pubblica fonti ufficiali. La comunicazione deve essere costante, regolare, misurata al rischio”.

Dottoressa Salvi, in Italia c‘è stata una certa confusione, a livello di comunicazione, da parte delle istituzioni?

L’Italia ha avuto 3 momenti di comunicazione: l’inizio dell’epidemia in Cina; i primi 3 casi notificati a Roma, e l’impennata dei casi dal 21 febbraio. Si è trovata a dover rispondere su più fronti a una situazione che ha sorpreso un po’ tutti. All’inizio, anche le Regioni che comunicavano i dati. Poi c’è stata la necessità di strutturare, di un maggior coordinamento a livello centrale.

Tra sabato e domenica notte c’è stata l’anticipazione di un Dpcm che stabiliva la Zona Rossa in Lombardia e in altre 14 province, con i cittadini in massa ai treni per uscire. Come valuta questo incidente?

Non so chi gliel’abbia data l’anticipazione, è possibile che sia uscita dalla stampa. E serve etica e responsabilità anche da parte di voi giornalisti. Se le informazioni escono così e i cittadini assaltano i treni, la cosa è problematica.

In Italia sono state chiuse scuole e università. Ma come si fa a far capire ai giovani tra i 15 e i 25 anni che non devono fare feste o aperitivi?

Prima di tutto è importante capire quali siano i canali più efficaci per raggiungere i giovani attraverso una mappatura di quelli che seguono e poi usarli. Il governo ha messo in campo un accordo con le maggiori piattaforme social: se cerchi le parole coronavirus, emergenza, epidemia appaiono subito i link alle fonti ufficiali. E poi bisogna dare anche a loro un messaggio preciso: essere responsabili, fare la propria parte. La cosa principale è seguire le autorità. Poi ci sarà un momento in cui si capirà cosa è stato efficace.

Ieri sono stati chiusi cinema, teatri, musei. Ma il 27 febbraio il sindaco Sala ha esortato i milanesi a fare l’aperitivo. Un paio di giorni fa Nanni Moretti si è fatto fotografare in un cinema romano vuoto. Messaggi sbagliati?

Il messaggio di solidarietà “siamo uniti” non deve prescindere da quello che è giusto. Se lo facciamo esaltando il nostro stile di vita ma andando contro quello che è giusto fare non è un messaggio di vita. È molto difficile stare sul giusto crinale tra allerta e allarme.

Bisogna mettere in discussione il nostro stile di vita?

Magari sì in questo momento. Io mi sono trovata in Africa a salutarmi con il gomito, in una civiltà abituata a uno stretto contatto fisico. Se necessario, si cambia. L’Italia, in maniera molto coraggiosa, sta mettendo la salute dei suoi cittadini e dei Paesi vicini al di sopra di ogni altra considerazione socio-economica. È importante stare tutti dalla stessa parte.

Quanto durerà?

È davvero troppo presto per dirlo.

C’è una rimozione collettiva?

È una reazione normale, soprattutto all’inizio. Durante Ebola io mi trovavo in Guinea. Per gli abitanti era difficile capire, di fronte a squadre di gente straniera, che diceva cose contro la loro tradizione e la loro cultura. Ma stabilire o mantenere la fiducia è al centro della comunicazione di rischio. Per questo, una delle misure efficaci è lavorare con gli influencer, che in Africa, erano i saggi delle comunità. Mi ricordo Marianna, 60 anni, che andava nei villaggi con la moto e dava i nostri messaggi o anticipava noi.

Quali emergenze ha seguito? E con che tipo di comunicazione?

Ho lavorato su Ebola dal 2007 in Africa, poi lo Tsunami in India, la Polio, la Sars, l’Aviaria. Noi sappiamo quello che funziona in comunicazione di rischio, ce lo dicono quasi 20 anni di scienza ed esperienza. E sono quattro elementi che contribuiscono alla fiducia. Trasparenza e tempestività; coordinamento delle forze in campo (locale, centrale, stakeholder); ascolto (ovvero, basare la comunicazione sulla percezione del rischio da parte dei cittadini, sugli elementi culturali, sulle barriere che ostacolano i comportamenti corretti); definizione dei canali e degli influencer. Questi funzionano, ma poi dipende dal contesto.

Cosa aspettate per dichiarare la pandemia?

La pandemia del 2009 era una pandemia di influenza, dichiarata sulla base di 6 fasi di diffusione geografica. Ora questo meccanismo non esiste più, va rivalutato. Il Covid-19 non è un’influenza, ma un coronavirus: l’Oms non ha un meccanismo di dichiarazione della pandemia. Però abbiamo dichiarato il 30 gennaio l’emergenza di sanità pubblica internazionale. E dal 28 febbraio il più alto livello di allerta di rischio nel mondo.

Quindi, di fatto, la pandemia già c’è?

Non la chiamiamo pandemia, ma massimo livelli di allerta globale di rischio. A prescindere dalla terminologia, richiediamo ai Paesi il massimo livello per preparazione e risposta. Poi, se a un certo punto il mondo ha bisogno di sentirsi dire pandemia, vedremo.

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