Elezioni Usa 2020, spostarsi verso il centro è una scommessa molto rischiosa per i Democratici

11 Novembre 2019

Un giovane sindaco senza esperienza politica nazionale si candida all’incarico più alto, vuole guidare l’esecutivo, anche se finora ha amministrato senza particolare successo soltanto una cittadina di 100.000 abitanti. Non è Matteo Renzi, ma Pete Buttigieg, “major Pete”: primo cittadino di South Bend, trascurabile località dell’Indiana, uno Stato repubblicano nel Midwest. Major Pete si è illuso per qualche giorno di beneficiare della principale ossessione dei partiti progressisti di tutto il mondo, quella che ha condannato sinistre di ogni sfumatura alla sconfitta negli ultimi vent’anni: l’idea che le elezioni si vincono al centro.

Buttigieg, 37 anni, ha avuto una sua celebrità perché, pur essendo molto religioso, è gay, sposato, ed è pure un veterano dell’Afghanistan. Si presenta come un Obama bianco – anche se non parla mai di omosessualità così come Obama non era mai esplicito sui temi razziali – e fino a giovedì scorso fa sembrava potesse vincere la sua scommessa: offrirsi come l’approdo per quegli elettori Democratici spaventati dai programmi troppo radicali di Elizabeth Warren e Bernie Sanders (che hanno idee bizzarre per gli standard di Buttigieg, tipo tassare i ricchi, estendere la copertura sanitaria pubblica o ridurre il potere delle grandi aziende digitali). Buttigieg ha puntato tutto sull’Iowa, il primo Stato decisivo per le primarie dei Democratici, dove ora un sondaggio lo dà al quarto posto con il 18 per cento. Quello che conta, per lui, è il sorpasso su Joe Biden, l’ex vicepresidente di Obama considerato il predestinato a sfidare Donald Trump nel 2020, che si ferma al 17 per cento (il sondaggio però ha un margine di errore del 4,7 per cento). Buttigieg pensava di essere diventato lui il candidato capace di catalizzare quei fantomatici voti “moderati” che servono per vincere: a 77 anni Biden è appannato, non finisce le frasi, inanella gaffe e, si è scoperto, fa campagna elettorale con un jet privato, non il massimo per parlare ai diseredati. Inoltre l’ossessione di Trump nei suoi confronti – con la richiesta a vari governi di indagare sugli affari dei suoi figli – ha attirato l’attenzione su una famiglia di spregiudicati profittatori: figli e parenti vari che si arricchiscono con ricche “consulenze” pagate da chi vuole tenere buoni rapporti con il vecchio Joe.

Vista l’eclissi di Biden e l’affacciarsi di Buttigieg alle spalle del duo radicale Warren-Sanders, l’ossessione progressista per il centro sta producendo un colpo di scena: l’ingresso nella corsa di Michael Bloomberg, quasi ufficiale. Non ci sono sondaggi recenti, ma l’ex sindaco di New York sembra avere poche possibilità di vittoria: anche nella città che ha amministrato per 12 anni (grazie a un trucco che gli ha regalato un mandato extra) è amato e odiato, per gli altri è un miliardario iperprogressista, famoso per il gruppo di media omonimo e perché crede nelle tasse sulle bibite gasate. La speranza di molti è che Bloomberg abbia abbastanza soldi da comprarsi la Casa Bianca, sfrattando Trump e garantendo a Wall Street e alla Silicon Valley un presidente non ostile.

Magari è giusto il recente sondaggio del New York Times che ad oggi dà Trump vincente in tre Stati decisivi su sei se come sfidante avrà la Warren o Sanders (mentre sarebbe in testa soltanto in uno contro Biden). Però è chiaro che negli Stati Uniti si decide il destino della sinistra, nella prima elezione post-populista. Trump può ancora vincere grazie all’economia che regge, ma ha dimostrato di non saper governare. Come reazione all’onda populista, i Democratici hanno elaborato due risposte: Biden-Buttigieg-Bloomberg, cioè la definitiva trasformazione di una forza progressista in un baluardo dello status quo e della difesa degli interessi dei ricchi e della parte alta della classe medi; oppure il modello Warren-Sanders (fino alla versione più movimentista della deputata Alexandria Ocasio Cortez), un post-populismo di proposte radicali che individuano nella disuguaglianza e nelle grandi aziende il nemico, invece che negli immigrati e negli intellettuali.

La Warren e Sanders, con ricette diverse ma sempre nette, vogliono tassare i ricchissimi, ritirare i soldati da guerre di cui nessuno riesce più a spiegare il senso (Afghanistan), alleggerire il fardello dei debiti universitari per i giovani e garantire un sistema più universale ed equo nella sanità, costringere Google e Facebook a restituire alla politica il potere di cui si sono appropriate, affrontare la globalizzazione con un misto di protezionismo e ricerca di competitività. E vogliono fare tutto questo – per quanto possa sembrare strano in Italia – senza usare la sola leva del deficit: Sanders promette più tasse, la Warren promette che saliranno solo per i miliardari.

Spostarsi verso il centro è una scommessa molto rischiosa per i Democratici: non è affatto detto che basti a vincere la Casa Bianca, di sicuro basterebbe a perdere quell’energia intellettuale e politica che ha prodotto la prima vera risposta di sinistra al populismo. Non è una storia soltanto americana: l’esito della sfida interna ai Democratici avrà inevitabili ripercussioni anche in Italia, sul nostro Buttigieg (Renzi) e sull’evoluzione di Cinque Stelle e Pd, oggi in cerca di una nuova identità da contrapporre alla destra in continua crescita nei sondaggi.

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