Torre Maura, il percorso di autocoscienza che serve alla comunità Rom

7 Aprile 2019

“Non siamo tutti cattivi, non siamo animali, ci sentiamo sequestrati”. Un uomo di etnia rom insultato dai residenti a Torre Maura

 

A Dijana Pavlovic, che aveva gli occhi pieni di lacrime, ho chiesto: che cosa fate, che cosa fanno le comunità rom e sinti per spiegare, per dimostrare, per raccontarsi. Per dire no, non siamo tutti ladri e criminali con le Ferrari parcheggiate davanti alle roulotte, tutti abituati a vivere tra i rifiuti, tutti a poltrire a carico dei contribuenti e delle donne e dei bambini costretti a mendicare, a borseggiare? Alla brutalità che vi ingiuria, che vi disprezza, che non vi può vedere, che vi vorrebbe morti perché non replicate elencando gli artisti, gli intellettuali, gli atleti, i medici, gli avvocati, i professionisti, i giovani attivi negli studi che danno dignità e orgoglio all’etnia rom e a quella sinti? Perché, eternamente sulla difensiva, non citate quasi mai i “50mila rom integrati che sono cittadini italiani, vivono in case e lavorano onestamente” (Santino Spinelli, rom, musicista, compositore, poeta, docente alle università di Trieste, di Chieti e di Teramo, oltre che al Politecnico di Torino)?

A Dijana (attrice affermata, laurea all’Università di Belgrado, volto televisivo, da anni impegnata a promuovere la cultura della sua gente) anni fa Furio Colombo offrì uno spazio settimanale sull’Unità di cui ero condirettore. Me lo ha ricordato lei ancora scossa per le immagini di violenza belluina di Torre Maura appena trasmesse da “Piazza Pulita”. Proteste che, a parte l’uso fascista che ne fanno i picchiatori di CasaPound e Forza Nuova, vanno anch’esse comprese nel contesto di assoluto degrado e abbandono nel quale, stipati in un megaquartiere ghetto (come tanti, a Roma, intitolati a qualche torre) vivono (o sopravvivono) duecentomila esseri umani. Perché noi osservatori, giustamente colpiti dalla reazione di padri e madri di famiglia che si scagliano contro altri padri, altre madri e altri figli chiamandoli “zingari”, dovremmo domandarci, prima di tutto, se coloro che scappano sui furgoni celesti della polizia non siano il detonatore di una esasperazione diventata insopportabile.

Certo che lo sono, e non lo si potrà mai comprendere appieno se si abita, come chi scrive, in zone protette del centro storico o comunque lontane da campi e centri d’accoglienza. Perché il non aver saputo governare la questione nomade, e averla anzi lasciata marcire ha prodotto in Italia (non così in Germania o in Francia) un doppio cortocircuito sociale e politico. Da una parte il vittimismo (“non siamo animali”) di una comunità che non vuole fare i conti con il disagio che i propri membri (non tutti, però molti sì) infliggono al resto della collettività con il loro stile di vita. Perché se chi abita vicino alle roulotte mette le inferriate alle finestre o se quando una zingarella sale sul bus l’istinto è di proteggere il portafoglio questo, per dirla con il sociologo Luca Ricolfi, non è pregiudizio ma, purtroppo, esperienza. In tutto ciò la (non) risposta politica al problema rom o è quella della destra che li caccia e li schifa o è quella della sinistra che li commisera e s’indigna, tenendoli a debita distanza.

Per rialzare la testa queste comunità dovrebbero prima avviare un forte e sincero percorso di autocoscienza, affidandosi ai più giovani e alla domanda: cos’è che non va in noi (prima di chiedere cos’è che non va negli altri). La Giornata Mondiale dei rom e dei sinti dell’8 e del 9 aprile sembra l’occasione propizia.

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