Appello alla politica

Il cibo non manca, ma 1 mld di persone lotta contro la fame

Puntare sull'agroecologia - Oltre il 30% del totale dei prodotti non è destinato all'alimentazione umana, ma a quella animale o alla produzione di biocarburanti

Di Simone Garroni, direttore di Azione contro la Fame Italia
1 Agosto 2022

L’attuale crisi alimentare globale non è nuova e deve poco alla guerra in Ucraina. Ben 828 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2021. Nello stesso periodo, quasi 924 milioni di persone (l’11,7% della popolazione mondiale) hanno affrontato gravi livelli di insicurezza alimentare, un aumento di 207 milioni in due anni (Sofi 2022). Negli ultimi sette anni, la fame nel mondo è aumentata e questa tendenza non ha motivo di invertirsi oggi se non cambia qualcosa di strutturale.

Nei Paesi che già sperimentano alti livelli di insicurezza alimentare, e non solo in quelli, l’inflazione sta facendo aumentare la povertà già esistente, spesso associata alla guerra o alla crisi climatica. Le cause strutturali della fame appaiono ancora più chiaramente oggi che la guerra in Ucraina sta facendo rivivere la falsa idea della scarsità e il mito di una soluzione immediata: l’uso magico dell’aumento della produzione.

Dobbiamo essere chiari: non esiste una carenza globale, globalizzata e diffusa di prodotti alimentari. Al contrario, il mondo produce troppo e male. Se consideriamo le quantità di cibo pronto per il consumo, su 5 miliardi di tonnellate prodotte, il 20% del cibo disponibile va perso o sprecato (Unep). Mentre il 12% della popolazione mondiale non mangia a sazietà. Se guardiamo alla destinazione del cibo prodotto, oltre il 30% del totale non è destinato all’alimentazione umana, ma all’alimentazione animale o alla produzione di biocarburanti. Il 19% del mais prodotto non è destinato al consumo umano.

A tale spreco si aggiunge l’uso improprio della terra, sia per la destinazione della sua produzione sia per le conseguenze ambientali negative che genera, che sono esse stesse una causa primaria della fame. Alle carenze della filiera produttiva e all’uso improprio della terra si aggiungono il land grabbing e la logica della speculazione e del controllo delle scorte a scapito dell’interesse generale. Questo sistema deve essere riformato.

Più che la questione della scarsità, è la questione dei prezzi che deve essere al centro dell’attenzione. La prima conseguenza alimentare della guerra in Ucraina è l’inflazione diffusa e massiccia dei prezzi delle materie prime, ma anche dell’energia, dei trasporti, ecc. Questa inflazione colpisce tutti, e in modo più significativo coloro che sono più esposti e vulnerabili. Nei paesi in cui la maggior parte della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà (1,9 dollari a persona al giorno), l’aumento del 30-50% dei prezzi dei generi alimentari corrisponde con certezza a un aumento meccanico dell’insicurezza alimentare. Questo è ciò che vediamo, ovunque i nostri team lavorino.

Non sarà quindi l’aumento della produzione di grano o di altri cereali a cambiare la situazione delle vittime della fame, ma una risposta globale e strutturale, sia immediata – fornendo maggiore sostegno alla risposta umanitaria – che a lungo termine.

Strutturalmente è necessaria una maggiore regolamentazione del sistema agroalimentare globale. Dobbiamo riorientare le nostre priorità verso la qualità e la copertura del fabbisogno alimentare di tutti. Che la produzione alimentare sia responsabile di 1/3 delle emissioni di carbonio è semplicemente insostenibile. Siamo obbligati a ridurre la sua impronta distruttiva. Ciò rappresenta una doppia opportunità: nutrire meglio tutti e ridurre una delle cause della fame. Ciò implica una maggiore localizzazione della produzione e dare priorità all’agricoltura locale e alla sovranità alimentare dei territori. Ciò implica anche una maggiore diffusione dell’agroecologia, i cui benefici non sono più messi in dubbio da nessuno. La performance dei nostri sistemi alimentari non deve più essere intesa solo in termini di redditività finanziaria, ma prima di tutto in termini di risposta ai bisogni alimentari ed ecologici. Nulla di incompatibile.

Allo stesso tempo, la comunità internazionale, e in particolare il G7, che ha recentemente annunciato un’Alleanza globale per la sicurezza alimentare, deve lavorare per sviluppare migliori basi di protezione sociale nei Paesi più poveri e a rischio di fame. Un’occasione che il recente summit ha mancato, destinando a questo scopo solo ulteriori 4,5 miliardi di dollari (su un totale di 14 miliardi), a fronte di 600 miliardi stanziati per le infrastrutture.

Le diseguaglianze sociali, economiche, di accesso alle cure e di genere sono una questione diretta e centrale. Il recente esempio afghano parla chiaro. La correlazione è semplice: la fine degli aiuti strutturali internazionali (che rappresentavano il 40% del Pil del Paese) ha causato il collasso del sistema sanitario (tra le altre cose) e l’aggravarsi di una crisi alimentare che ha raggiunto livelli senza precedenti, colpendo il 60% della popolazione, di cui 130.000 bambini rischiano oggi di morire di fame.

In un momento in cui il numero di persone che lottano per sfamarsi aumenta vertiginosamente, le cause della fame stanno diventando più chiare che mai. E con queste anche le soluzioni che, in contrasto con la retorica dell’aumento della produzione, convergono verso la necessità di cambiamenti strutturali su molteplici dimensioni. In primis quelle legate ai conflitti, alla crisi climatica e ambientale, alle disuguaglianze. Un’agenda di cambiamento urgente e non più rimandabile.

Per questo, con il manifesto Mai più fame, Azione contro la fame chiede ai leader politici di agire urgentemente per contrastare le ragioni strutturali dell’insicurezza alimentare, in Italia e nel mondo.

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