La vertenza Gkn bussa alla porta di Letta. Ma il Pd è innamorato di Draghi

21 Settembre 2021

A una rapida occhiata sulle agenzie, la quasi totalità delle dichiarazioni relative alla vertenza Gkn provengono da Pd, M5S e sinistra varia. Dichiarazioni di soddisfazione per la decisione del Tribunale che ha bollato come “antisindacale” il licenziamento di 422 operai. Dato importante, perché aiuta a capire come e perché quell’alleanza, che è stata la spina dorsale del Conte 2, abbia al suo interno alcuni tratti distintivi e unificanti.

Sui diritti del mondo del lavoro, sulle garanzie minime a livello sindacale, c’è quindi un’assonanza che sorregge ipotesi di alleanze durature. Solo chi non vuol capire, oppure capisce benissimo ma deve ogni giorno alimentare una sterile polemica sui cedimenti populisti del Pd, può bollare questo come una propensione populista dei Dem, o almeno di una loro parte, a tenere aperto il dialogo con il Movimento di Giuseppe Conte.

Il dato positivo però termina qui perché quella solidarietà, generosamente offerta mentre il fondo Melrose, proprietario della fabbrica di Campi Bisenzio, precipitava alla Borsa di Londra (ma alla fine chiudeva solo con un -1,20%) non è ancora all’altezza della situazione. Le dichiarazioni di giubilo si nascondono dietro la decisione giudiziaria e sembrano mancare di convinzione e determinazione. Sabato, quando 15 mila persone hanno manifestato a Firenze, da parte del Pd non si è assistito a una solidarietà immediata, mentre Enrico Letta preferiva twittare sui successi dello sport italiano.

E invece in quella piazza si sono visti uomini e donne che da tempo non manifestavano insieme, che hanno individuato nella rivendicazione di dignità che gli operai sono riusciti a trasmettere in tutta Italia una ragione valida per tornare in piazza. Sapendo che non esiste una forza politica adeguata, forse nemmeno un sindacato, a rappresentarli o a raccoglierne le intenzioni di partecipazione.

Ha buon gioco Romano Prodi a rimproverare al Pd di essere un partito senza visione politica soprattutto nel campo del lavoro. Critica un po’ furbesca per chi con il lavoro si è scontrato più volte durante i suoi governi e che non è ricordato per grandi svolte sociali. Ma il suo rimprovero è servito a rendere il “re nudo” per l’ennesima volta. Il tema del lavoro è un grande rimosso, non solo del Pd, ma del quadro politico. Anche i 5S, pur esprimendosi spesso con atti e simboli importanti – la sottosegretaria Alessandra Todde e anche Conte sono stati in visita alla fabbrica – poi non ne fanno un tema centrale della loro iniziativa.

Sembra scontato dire che il lavoro è centrale se si vuole recuperare un rapporto con la società. Meno scontato cogliere nelle dinamiche moderne del lavoro dipendente questioni di respiro più generale che coinvolgono la richiesta di dignità, il riconoscimento di diritti ma anche di ruolo attivo e di partecipazione. Questioni come licenziamenti, salario minimo, pensioni o anche smarworking, sono i punti salienti della vita quotidiana. Non saperne parlare, parlarne solo quando capita è un segnale di arretratezza enorme.

Se invece si volesse dimostrare che qualcosa è cambiato, allora basterebbe impegnarsi sul decreto anti-delocalizzazioni, sul salario minimo (che anche Scholz, candidato della Spd, propone di aumentare in Germania, mentre a opporsi è il conservatore Laschet) e difesa della dignità del lavoro. Una volta si chiamava sinistra. Ma può una qualsiasi sinistra parlare di questi temi in un governo come quello Draghi? No, non può. Eppure il Pd continua a strillare che questo è il suo governo. Prodi può aspettare.

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