Conte alla conquista dei moderati: attenzione a non fare una messa cantata, però. I post di Scanzi

11 Giugno 2021

Non si può morire così

Michele Merlo non ce l’ha fatta. Se n’è andato.

Una dinamica brutale che ricorda da vicino quella di Federico Luzzi. Stessa malattia. Anche Federico era giovanissimo, anche lui aveva talento e anche lui volò via in un attimo.

Non si può morire così. Non si può morire a quest’età. Non si può.

When They See Us, una serie devastante sui 5 di Central Park. Per questo va vista

Gli uomini che vedete in foto sono Kevin Richardson, Antron McCray, Raymond Santana, Korey Wise e Yusef Salaam. Furono vittime nel 1989 di una delle più atroci e carognesche macchinazioni giudiziarie nella storia degli Stati Uniti.

La loro storia viene ripercorsa da una miniserie Netflix, When They See Us. L’ho finita ieri ed è straordinaria. Recitazione a livelli siderali, scrittura perfetta. Asciutta e definitiva. Quattro puntate che fanno un male cane. Mi ha proprio devastato.

I ragazzi furono condannati per il “caso della jogger a Central Park”. Un caso di cui si parlò oltremodo a cavallo tra Ottanta e Novanta. Donald Trump chiese la condanna a morte per i colpevoli e ci lucrò per anni. I media dettero il peggio di sé. Ma furono ancora più orrendi gli investigatori e i giudici. I “5 di Central Park” si fecero tra i 6 e i 13 anni di galera per non avere fatto nulla. Quattro di loro avevano meno di 16 anni (uno 14…) e furono mandati in riformatorio. Uno, Wise, aveva già 16 anni e si fece il carcere “vero”. Venendo brutalizzato e aggredito in ogni modo, perché per tutti loro erano quelli che avevano stuprato e ridotto in fin di vita una ragazza. Erano “famosi” e tutti volevano fargli la festa. Guardie carcerarie, prigionieri. Tutti.

La serie racconta con precisa nettezza la macchinazione giudiziaria. I ragazzi, quella sera, erano a Central Park (dalla parte opposta rispetto allo stupro) a fare “wilding”. Cioè a partecipare a vili aggressioni di gruppo. Di fatto, all’epoca, capitava che decine di ragazzi di colore provenienti da Harlem si unissero per fare “un po’ di casino” contro i bianchi: insultare i ciclisti, lanciare qualche sasso. Qualcuno però arrivava ad aggressioni vere e proprie.

I 5 ragazzi, chiamati poi “I 5 di Central Park”, si unirono al branco senza fare nulla di che. Due di loro furono fermati dalla polizia (Richardson e Santana, l’unico ispanico dei cinque). Il giorno dopo vennero presi McCray e Salaam. Wise, il quinto, fu accompagnato in Centrale anche se non era accusato di nulla. Fu portato in Centrale per accompagnare l’amico Salaam, altrimenti “sua madre si sarebbe arrabbiata”. Wise sarebbe poi stato il più devastato dalla vicenda.

Servivano per forza dei colpevoli e furono individuati in questi cinque ragazzi senza colpa. Linda Fairstein, che avrebbe poi fatto carriera come giallista, si intestardì e volle che fossero loro i colpevoli. Anche se era evidente che non c’entrassero nulla. I ragazzi furono interrogati per 50 ore, privati di sonno e cibo, senza assistenza familiare e legale. Stremati, confessarono colpe e reati mai commessi pur di tornare a casa. La polizia dettò loro le confessioni in “testimonianze” audio e video, che risultarono poi l’unica cosa in mano all’accusa. Non c’erano prove, non c’era Dna, non c’era nulla.

La verità sarebbe venuta a galla solo tredici anni dopo, quando il vero colpevole – che aveva agito da solo – confessò tutto quando era già in carcere con l’ergastolo, in quanto stupratore seriale e omicida. Paradossalmente quel reato era andato nel frattempo in prescrizione. Il colpevole confessò perché incrociò Wise in carcere e, in qualche modo, si sentì in colpa (?).

La città di New York riabilitò i ragazzi nel 2002 (tredici anni dopo l’omicidio…) e soltanto dopo altro dieci anni diede loro un risarcimento quantificabile in un milione di dollari per ogni anno passato in carcere.

Gli interrogatori, il processo, le violenze. Le vite spezzate. Una delle serie più devastanti che abbia mai visto (e ne ho viste tante). Una delle carognate giudiziarie più atroci e infami nella storia degli Stati Uniti.

Guardate When They See Us, ma preparatevi: si sta male. Anzi malissimo.

Silvietto al Quirinale, che candidatura!

Ma certo! Perché mettersi contro una simile candidatura così illuminata ed esaltante?

Anzi io andrei oltre. Giletti presidente del Consiglio. Farinacci alla giustizia. Bombacci agli Esteri. E Gasparri sindaco di Roma (ah no, scusate. A questo ci state pensando sul serio).

Daje sempre!

De Vito, l’ennesimo trasformista che i 5 Stelle rendono famoso

Marcello De Vito, candidato comicamente a sindaco di Roma (?!?) dai 5 Stelle nel 2014.

Viene poi eletto presidente dell’Assemblea capitolina con il M5S. Nel 2019 l’arresto per l’accusa di corruzione.

E ora il passaggio a Forza Italia.

Tajani e Gasparri hanno accolto De Vito a braccia aperte, con tanto di conferenza stampa. De Vito è ancora a processo nell’inchiesta sullo stadio della Roma, ma giura che “la mia vicenda giudiziaria ha influito zero” sulla scelta di passare a Forza Italia. Anzi: “Ha sempre rappresentato le mie idee e la mia cultura prima di entrare nel M5s”.

Non solo. Per De Vito, Silvio Berlusconi è “un grande innovatore della scena politica italiana”. E con Gasparri il confronto sui temi romani prosegue dallo “scorso gennaio”.

De Vito è solo l’ennesimo trasformista che i 5 Stelle rendono famoso. Inevitabile: quando non hai classe dirigente, non fai selezione ed elevi il mantra “uno vale uno” a totem politico, il risultato è quello di portare in Parlamento (o in consiglio comunale) le Fucksia, le De Pin, le Gambaro, le Cunial, i Mastrangelo. Eccetera eccetera eccetera.

Se Giuseppe Conte vuole ottenere qualcosa, come prima mossa deve incidere personalmente sulla selezione dei candidati da mettere in lista. Basta con questi carneadi, basta con questi trasformisti, basta con questi personaggi che la tivù non dovrebbero vederla neanche in tivù: figuriamoci farla.

Miss Hitler, il pericolo nazi e i “nasi degli ebrei”

Sempre belle notizie. Leggete bene, che adesso abbiamo pure i nazisti. Daje!

Dodici persone tra i 25 e i 62 anni sono accusate di associazione a delinquere finalizzata alla propaganda e all’istigazione all’odio per motivi di discriminazione etnica e religiosa. Tra gli indagati anche un appartenente all’Arma dei Carabinieri in servizio a Roma.

Cosa faceva questa gente? Istigava violenze contro ebrei ed extracomunitari sui social. I 12 erano pronti anche a passare all’azione, tanto da avere iniziato a pianificare un attacco contro una base Nato in Italia per mezzo di ordigni esplosivi artigianali, confezionati attraverso istruzioni reperite sul web.

I dodici, scrive il gip nell’ordinanza, “sono accumunati da un’univoca concezione politica e culturale infarcita di sentimenti suprematisti e di disprezzo”.

I soggetti appartenevano a un’organizzazione neonazista chiamata “Ordine Ario Romano” e ramificata in tutta Italia. A capo del movimento il 40enne Mario Marras, che attraverso i social network Vk e Whatsapp diffondeva meme di stampo razzista e antisemita, e la milanese Francesca Rizzi, insignita nell’estate del 2019 del titolo di “miss Hitler”. La Rizzi la vedete in foto.

A essere presi di mira soprattutto stranieri e vittime dell’Olocausto. In uno dei tanti post di “Ordine Ario Romano” veniva spiegato come riconoscere un ebreo dal naso. “Non è difficile smascherarli”, si legge, “il naso ebreo classico è curvo e la gobba è nel mezzo. Non dimenticate che, con il grande benessere che possiede questa gente, molti optano per la chirurgia plastica per ridurre la dimensione o cambiare la forma ebraica dei loro nasi”.

Ah, dimenticavo. Alcuni esponenti del gruppo erano in contatto social, attraverso la piattaforma Vk, con il professor Marco Gervasoni, il professore romano perquisito nelle scorse settimane sempre dai Ros nell’ambito dell’indagine per minacce e offese al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È lo stesso Gervasoni che dileggiò Liliana Segre ed Elly Schlein. È lo stesso Gervasoni che scrive (o scriveva) sul sito di Porro e sul Giornale.

Tutto bello, no?

La cena della sopravvivenza

Ogni tanto una bella storia.

Cinque sconosciuti si conoscono nella maniera più traumatica: in terapia intensiva. Malati di Covid. Intubati e a un passo dalla fine. Si fanno una promessa: una cena, se riusciranno a sopravvivere.

“Insieme abbiamo affrontato l’inferno del Covid e insieme lo abbiamo sconfitto. Rivederci felici e in salute è stato emozionante: nessuno di noi aveva troppe speranze di sopravvivere”.

Alla fine, poi, quella cena l’hanno fatta. Anche se non erano in cinque, ma in quattro. Uno di loro non ce l’ha fatta.

Maurizio Frati, Andrea Gemignani, Gianluca Magozzi e Roberto Fortunato. Sono le persone che vi sorridono in foto. Sopravvissuti all’inferno, rinati più forti di prima.

Si conoscono da qualche mese appena, ma è come se si conoscessero da sempre.

L’ultimo liberatore di Auschwitz, raccontò l’orrore

David Dushman, carrista dell’Armata Rossa. Fu tra i primi ad arrivare ad Auschwitz.

Sfondò la recinzione del lager con un carro armato. E vide cosa era avvenuto: montagne di cadaveri impilati l’uno sull’altro. Uomini e donne sopravvissuti, ma in fin di vita. Smagriti. Consunti. Distrutti.

Dushman ha raccontato finché ha potuto l’orrore nazista. Anzitutto nelle scuole.

È morto ieri a 98 anni. Era l’ultimo liberatore di Auschwitz ancora in vita. Era un uomo straordinario.

Adesso, a perpetuare il ricordo, toccherebbe a noi. Ma non mi pare che ne abbiamo granché voglia. È questo è terribile.

Alla faccia dei fannulloni: quando il lavoro si paga, fuori dalle aziende c’è la fila

Rossano Rossi, segretario generale della Cgil di Lucca e delegato sindacale della Sammontana. Un‘azienda balzata agli onori della cronaca per un motivo tanto – in apparenza – scontato quanto oggi quasi rivoluzionario: ha rispetto dei lavoratori.

Sammontana è un’azienda di Empoli. Da 70 anni produce gelati. Ha appena assunto 352 operai stagionali negli stabilimenti della fabbrica toscana. E al momento sono addirittura 2.500 le domande che si sono accumulate negli uffici dell’azienda. Un successo incredibile.

Ho scoperto questa storia grazie a Leonardo Cecchi. Dov’è la notizia? L’ha spiegato bene proprio Rossi in un’intervista. Ecco le sue parole.

“Il problema reale è la mancanza di domanda di qualità, ovvero di un’offerta di lavoro con retribuzione adeguata alle ore svolte. (Sammontana) è un’azienda seria: riconosce i diritti ai suoi lavoratori e, ogni mese, dà ai suoi dipendenti uno stipendio medio che consente loro di vivere in modo dignitoso. Non è scontato, di questi tempi. Invece le offerte di lavoro che girano sul mercato prevedono pochi spiccioli e quasi zero diritti per molte, troppe, ore di lavoro. E poi gli imprenditori si lamentano pure”.

“Il problema non è il reddito di cittadinanza, il problema è che fino a quando gli imprenditori continueranno a offrire 3 euro l’ora, c’è poco da lamentarsi se non trovano lavoratori stagionali. I ricchi sono sempre più ricchi, mentre i poveri sono di più rispetto al passato e anche con maggiori difficoltà. Per questo il reddito di cittadinanza non deve essere stigmatizzato, ma visto come una possibilità. Se i datori di lavoro cominciassero a pagare bene i dipendenti smettendo di sfruttarli, sono sicuro che avrebbero la fila”.

Sarebbe facile. Ma se continueremo a seguire più i Briatore e le Santanché dei Rossano Rossi, non andremo da nessuna parte. Se non in fondo all’abisso.

Gianluca e il cancro, la (non) battaglia di un campione

“Io con il cancro non ci sto facendo una battaglia perché non credo che sarei in grado di vincerla, è un avversario molto più forte di me.

Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato, però non posso farci niente. È salito sul treno con me e io devo andare avanti, viaggiare a testa bassa, senza mollare mai, sperando che un giorno questo ospite indesiderato si stanchi e mi lasci vivere serenamente ancora per tanti anni perché ci sono ancora molte cose che voglio fare”.

Se Gianluca Vialli in campo era stupendo, fuori dal campo si sta rivelando un campione ancora più straordinario.

Conte vuole conquistare i moderati senza annacquarsi così tanto da perdere i barricaderi

Ieri c’è stata la prima uscita di Conte da leader dei 5 Stelle. Per l’occasione ha scelto Floris, dopo avere parlato il giorno prima con Il Corriere della Sera. Due contesti a lui non vicinissimi, e anche questo è sintomatico: Conte deve conquistare nuove praterie. Quindi lo vedremo presto anche da Vespa, Fazio eccetera.

Intervista tesa e vera ma corretta, com’è giusto che sia. L’ex presidente del Consiglio era lontano dagli studi televisivi da cinque mesi, che per certi versi sembrano quasi cinque anni. Non è parso arrugginito.

Il lavoro da leader politico è totalmente diverso da quello di premier. Quindi Conte può fare molto bene, come pure fallire. Mi è parsa una buona uscita. Non mi ha convinto l’accenno alla riforma costituzionale, che messa così sa molto di presidenzialismo (ma non credo che voglia la stessa cosa che vogliono Renzi o Berlusconi).

Evidente il desiderio di Conte di evitare i personalismi e gli scontri con questo o quel leader. Perché? Perché è nella sua natura, ma soprattutto perché vuole conquistare a tutti i costi i moderati. E qui risiede la sua sfida più difficile: conquistare i moderati senza annacquarsi così tanto da perdere i barricaderi. Impresa non facile.

Conte si è messo in tasca con agio Sallusti, e non ci vuol molto. Ha trattato Renzi come pulviscolo politico, e si fatica a dargli torto. Su Draghi è stato molto, molto, molto blando: col freno a mano tirato. Comprensibile, ma questo atteggiamento – al di là di alcune critiche assai timide – di sicuro non gli permetterà di ricucire lo strappo con qualche “talebano caso umano” (e questo va benissimo) ma pure di recuperare Di Battista (e questo invece per Conte è fondamentale). Conte dice che dalla sua parte ha tutte le anime 5 Stelle: a oggi non sembra.

Altro punto fondamentale: okay i modi garbati, ma serve anche molta garra (molta: non “un po’”). Altrimenti non è un partito, ma una messa cantata.

Il ruolo di Grillo resterà centrale, infatti ieri Conte era in spiaggia con Grillo a Marina di Bibbona prima di recarsi a Roma. Il rapporto tra i due resta comprensibilmente fitto.

Nella nuova segreteria M5S leggo poi che dovrebbero entrare nomi assai diversi. Ottimo che ne faccia parte Azzolina, allucinante (se confermato) che si pensi davvero di inserirci Crimi e Castelli. Stiamo scherzando? Magari, già che ci siamo, troviamo uno strapuntino anche a Sibilia, Ciampolillo, il mago Silvan e la pora Menca di Frassineto? Dai, su.

Conte è l’unica speranza per il M5S. L’idea di lavorare a un “campo progressista” è encomiabile, sempre ammesso però che ci creda anche il Pd (assai vago in merito). Non vorrei che gli unici a crederci, alla fine, fossero Conte e Bersani.

Il suo gradimento resta alto e anche in tivù sa muoversi bene. A oggi il suo nuovo M5S sembra un po’ Dc cattocomunista, un po’ verdi tedeschi e un po’ vecchio 5 Stelle. Un cocktail non facile da assemblare. Ma neanche impossibile. Staremo a vedere.

Guglielmo Epifani, dice bene Bersani: “Nella fiera dei riformismi un riformista vero”

Non ho scritto nulla su Guglielmo Epifani. Non l’ho fatto non certo perché la sua scomparsa non mi abbia colpito (al contrario), ma perché mi ha fatto male. E onestamente cominciano a essere troppe le persone belle che se ne vanno.

Epifani mi appariva spesso troppo “morbido”, e Dio solo sa anche in casa mia – iperpoliticizzata e di sinistra assai – quante volte abbia suscitato dibattiti. Sulla sinistra, sul sindacato. Diciamo che, semplificando, mia madre incarnava l’ala riformista (quindi più vicina a Epifani) e mio padre quella massimalista. Un film che osservo da 47 anni.

Ho sempre guardato a Epifani come a una persona colta, garbata, d’altri tempi. Forse troppo “alto” per poter essere veramente “di massa” (e non lo dico come critica. Anzi). La sua scomparsa indebolisce ancora di più una politica che mi appare sempre più sfibrata, noiosa, vuota e distante.

Giovanni Floris, lunedì a Otto e mezzo, ha speso parole molto belle per ricordarlo. Qui voglio però citare Pierluigi Bersani, che non a caso è a oggi il politico che stimo di più in Italia:

“L’eleganza non è quel che indossi, è quel che sei. Anche nel confronto aspro e nella battaglia dura tenere la misura e perfino la gentilezza e la cordialità. Stare sempre al merito del problema senza mai una sfumatura di demagogia. Questo era Guglielmo Epifani. Nella fiera dei riformismi un riformista vero. Ci lascia un vuoto che non si colmerà”.

Parole perfette, per un uomo che a questo paese mancherà molto.

Il braccio destro (teso) della destra romana

Enrico Michetti. Professore di diritto, avvocato e imprenditore, ma anche (soprattutto?) tribuno radiofonico. Sotti indagine della Corte dei Conti del Lazio per alcuni appalti milionari affidati da enti pubblici senza gara. Nome assai gradito a Donna Giorgia Meloni: “È un professionista straordinario”.

È lui il candidato a Roma del centrodestra.

Non è il nome peggiore tra i papabili (fino a ieri si parlava perfino di Gasparri…). Il curriculum è rispettabile. E la sua vicesindaca sarebbe Simonetta Matone, figura di tutto rispetto. Ma Michetti, che fino a oggi fuori Roma conoscevano in tre, è comunque uomo ricco di inventiva vivida.

Per capire chi sia e come la pensi Michetti, basta ricordare una delle mille sproloquiate che ha regalato in radio. In particolare, di recente ha provocatoriamente (?) consigliato sotto Covid di fare il saluto romano, perché “è un saluto più igienico”.

Certo, quel saluto sarebbe anche un reato, in quanto apologia del fascismo, ma per Michetti sono dettagli: “Se per qualcuno per cui la storia inizia nel 1917 con la Rivoluzione russa quel gesto è rievocativo del fascismo e del nazismo, è un problema suo”.

Non c’è niente da fare: per quanto ci provino, prima o poi a questi qua torna su il rigurgito fascista. È proprio il loro reflusso esofageo di riferimento.

Per dirla con caparezza17 del collettivo Spinoza: “Roma, candidato il braccio destro di Giorgia Meloni. Lo vedo già teso”.

A noi!

Gallavotti, una bella scoperta!

Non poche persone, evidentemente distratte o in malafede, mi accusano di “parlare male di tutti”. Una critica semplicemente stupida.

Ci sono migliaia di persone che stimo. E ne parlo in continuazione. Nello sport, nella musica, nel cinema, nella letteratura. Nella società civile. Ovunque. Basta sapermi leggere. Ascoltare. Guardare.

Purtroppo molti lettori pensano solo alla politica. Sono convinti che io parli solo di politica (lavoro a parte, non lo faccio mai). Lì, per me, è più difficile stimarne tanti: qualcuno sì, tanti no. E me ne vanto, perché lascio l’adulazione indiscriminata ad altri.

E in tivù? La frequento da anni, ormai decenni, e il livello non è esaltante. Anzi. Ma ci sono tante, tante eccellenze. Volete dei nomi? Per esempio le conduttrici e i conduttori dei salotti che frequento. E poi Report. Galli, Crisanti, Cacciari. Eccetera.

Qui, in particolare, voglio fare un nome: Barbara Gallavotti. Non la conoscevo, l’ho scoperta di recente. La trovo di rara preparazione, classe, competenza e grazia. Una straordinaria comunicatrice. Ad ascoltarla mi incanto, e mi capita davvero di rado.

Ecco: se tutti quelli che fanno “il mestiere della televisione” (parafrasando Gaber) fossero come lei, non parlerei mai “male” di nessuno. E vivrei pure molto meglio, come credo voi.

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