Il Pd è ancora ostaggio del ‘corsaro’ Renzi

29 Gennaio 2021

Fossi in Zingaretti mi guarderei alle spalle: vari segnali lasciano intendere che la quinta colonna renziana tuttora presente nel Pd sia pronta a innescare la fase due della scissione, dopo averlo costretto a rimangiarsi nel volgere di pochi giorni il suo anatema del 14 gennaio scorso: “C’è un dato che non può essere cancellato dalle nostre analisi. Ed è a questo punto l’inaffidabilità politica di Italia Viva”. Qualora andasse a buon fine il reintegro di Iv nel governo, con o senza Conte, il probabile passaggio successivo sarebbe la demolizione dell’asse Pd-M5S-LeU e l’ulteriore spaccatura a sinistra che ciò comporterebbe.

Comprendo le buone ragioni di chi considera sciagurata l’ipotesi del voto anticipato a giugno, col piano vaccinale e il Recovery da attuare. Anche se dà sui nervi sentirselo dire da chi ha irresponsabilmente provocato la crisi. Ma sono assai meno nobili i motivi per cui tanta parte dei parlamentari Pd ha imposto il veto all’ipotesi di elezioni pur avanzata ufficialmente da Zingaretti e Franceschini. Salvo poi ritirarla alla chetichella, alla stregua di un maldestro bluff.

Come già nell’estate 2019, quando fu varata l’alleanza col M5S, al Pd tocca fare una specie di congresso in movimento: cioè ridefinire il suo profilo strategico senza avere il tempo di chiamare gli iscritti a pronunciarsi su questa scelta cruciale. Tutto si gioca all’interno di un gruppo dirigente che ha preferito evitare di fare i conti con la stagione in cui il partito intero, o quasi tutto, visse una sorta di infatuazione renziana. Qui servirebbe un po’ di memoria, per ragionare sul futuro. La segreteria Renzi portò alle estreme conseguenze quei tratti di disinvoltura intellettuale che già erano presenti nella leadership di Veltroni.

A subire il richiamo del giovane sindaco fiorentino intenzionato a rottamare le tradizioni del passato – rassicurati dal contentino dell’iscrizione al Partito socialista europeo con cui egli non aveva nulla a che spartire – i più lesti furono numerosi dirigenti ex comunisti di matrice dalemiana: da Minniti a Latorre fino ai “Giovani turchi” di Orfini. Scherzi della natura resi possibili dalla spregiudicatezza con cui già si erano recisi i legami con la cultura politica e il radicamento sociale delle origini.

Così, il partito che Renzi aveva trascinato nel 2018 al suo minimo storico del 18%, dopo il colpo a tradimento della scissione si è ritrovato a pesare solo per l’11% al Senato e per il 14% alla Camera. Sicché, alla luce dei successivi risultati nelle elezioni locali, ha buone ragioni di sentirsi sottorappresentato in Parlamento. Ma, anziché reagire, è come se si sentisse intrappolato in quel passato, dal che deriva il suo incedere ondivago, il suo rimangiarsi oggi quel che aveva stabilito solo ieri. Una perdita di fiducia in se stessi che impedisce di raccogliere i frutti del buon lavoro compiuto dalla segreteria Zingaretti. Nonostante la vittoriosa resistenza opposta ai tentativi di spallata di Salvini in Emilia-Romagna e in Toscana, nonostante i risultati conseguiti in Europa col Recovery plan, nonostante l’onesto lavoro compiuto per fronteggiare la pandemia, permane il timore di misurarsi in una sfida aperta con una destra sovranista che nel frattempo si è divisa e indebolita.

A costo di apparire ingenuo, e pur consapevole dell’handicap rappresentato dalla vigente legge elettorale, continuo a pensare che il contesto internazionale e nazionale oggi rende possibile contenderle la vittoria in caso di elezioni. Purché si rivendichi chiaramente la scelta già compiuta col governo Conte, cioè la scommessa di coinvolgere il M5S in un’alleanza europeista e progressista duratura. L’alternativa, temo, è lo spappolamento di un Pd che resta ostaggio di Renzi. Ma il problema non è solo Renzi. Il Pd corre il rischio di aggrapparsi all’attuale fisionomia di partito che non sa immaginarsi altro che per la sua vocazione governativa. Non è certo un caso, ad esempio, che da tempo risultino allentati i suoi legami con la Cgil e con le altre realtà dell’associazionismo sociale e civico.

Oggi, nonostante sconti gli effetti di un’umiliante sconfitta elettorale, il Pd resta bene insediato nelle istituzioni. Non lo considero certo un male: provengono dalle sue file figure apicali che godono di vasta stima come il Commissario Ue all’Economia, il presidente del Parlamento europeo e lo stesso presidente della Repubblica, per citare solo le principali. Sono componenti essenziali della classe dirigente. Ma resteranno sospese nel vuoto se un Pd succube, incapace di fare i conti col suo passato e di dotarsi di una strategia, s’accontenterà di restare agenzia dell’establishment. Questo mestiere del giorno per giorno, lo abbiamo constatato, lo sa fare meglio il corsaro Renzi.

Il tempo delle scorciatoie per restare in sella è scaduto. Chi ce l’ha, si dia coraggio.

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