L’intervista - Maria Edgarda Marcucci

“Confinata tipo ‘zona rossa’ per aver difeso pace e diritti”

Torinese - Ha combattuto in Siria contro l’Isis: ora è sotto sorveglianza dopo aver partecipato a due cortei. Un appello chiede lo stop alla misura

28 Novembre 2020

Da marzo è sorvegliata speciale, lo sarà fino al 2022, ritenuta socialmente pericolosa perché, tornata dal fronte nel Nord della Siria, dove combatteva con le milizie curde contro le bande jihadiste, ha preso parte a proteste. Maria Edgarda Marcucci detta “Eddi”, 29 anni, aspetta il verdetto d’appello. Docenti universitari, persone della cultura e dello spettacolo e simpatizzanti stanno raccogliendo firme in suo sostegno.

Come sta trascorrendo questa sorveglianza speciale?

Lavoro da casa e vivo secondo le limitazioni imposte. Dalle 18 non posso entrare negli esercizi commerciali, dalle 21 in poi devo stare in casa. Mi hanno ritirato patente e passaporto, devo concordare ogni mio spostamento con la polizia e girare con un libretto rosso su cui gli agenti possono scrivere quello che faccio.

È come se per due anni fosse in “zona rossa”?

Sì, rende l’idea.

Qual è la limitazione che patisce di più?

Decisamente quella alla vita pubblica e politica. Per giorni, dal 13 novembre, sono stati chiusi i miei profili social.

Conosce il motivo?

Non ho avuto nessuna informazione, a parte una schermata standard. Tornata dalla Siria viaggiavo per fare informazione su quanto accade in Kurdistan. Negli ultimi mesi ho continuato a farlo sui social. Parlavo della sorveglianza speciale, perché poche persone sanno che esiste e faticano a capirla, e di altri temi che mi stanno a cuore, come femminismo e transfemminismo, la lotta No Tav… Comunque da giovedì i miei profili sui social network sono stati riattivati.

Perché il Tribunale di Torino l’ha ritenuta “socialmente pericolosa”?

Mi hanno chiamata in tribunale perché dal settembre 2017 al giugno 2018 sono stata in Siria del Nord Est, mi sono unita alle Ypj (Unità di difesa delle donne all’interno delle Forze siriane democratiche, ndr) e ho partecipato alla resistenza di Afrin, in Rojava, dove era in corso un’operazione militare dell’esercito turco e delle bande jihadiste. Il tribunale ha ritenuto questa esperienza un’aggravante della mia condotta in Italia.

Casi simili al suo hanno avuto una conclusione diversa. Cosa la differenzia dagli altri?

Io sono pericolosissima (dice ironica, ndr). Nel decreto c’è scritto: “Il Tribunale si è confrontato con una costante, pervicace, mai sopita opposizione, da parte della Marcucci, nei confronti di provvedimenti delle pubbliche autorità, sfociata, in alcuni casi, in atti di vera violenza”. Il pericolo secondo loro sarei io che protesto contro la fornitura di armi dall’Italia alla Turchia, non la guerra. Per me ciò che è lampante in questa vicenda è quanto polizia, procura e tribunale siano distanti anni luce dalla realtà in cui viviamo noi. Per loro sono un pericolo se insieme ad altri lavoratori e lavoratrici pretendiamo che un cuoco venga pagato dal ristorante in cui lavora? Per milioni di persone il pericolo vero è non ricevere lo stipendio.

Cosa le fa più male?

Durante l’udienza d’appello il procuratore generale ha parlato di “reati spia”, un termine da codice antimafia, usando la categoria senza però farne un riferimento esplicito.

Nell’attesa del nuovo verdetto, in molti la sostengono sul web. È utile?

L’attivazione è sempre molto importante, fa la differenza. Chi ha una posizione istituzionale deve rendere conto alla società delle decisioni che prende, ormai sembra che se lo siano dimenticato. Sta a noi non permetterlo. Non possiamo lasciare che le decisioni sulla nostra vita vengano prese all’oscuro da noi.

I firmatari chiedono anche di rivedere il sistema della sorveglianza speciale.

Le misure preventive devono sparire. Ci si deve occupare anche di un codice penale che è innervato di leggi fasciste. Poi per me l’impianto della giustizia punitiva è sbagliato e inefficace. Nella Confederazione democratica nel Nord Est della Siria non hanno eliminato del tutto i tribunali, ma quasi. Nelle comuni ci sono dei “comitati del consenso” per dirimere i contrasti, sono membri della comunità scelti dalla comunità stessa: i conflitti interni vengono risolti in un clima di fiducia e sono spesso anche l’occasione per una crescita collettiva.

Tornerebbe nelle zone curde?

Certo.

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