La testimonianza

Il mio travaglio (figurato) per far nascere mio figlio in un ospedale pubblico di Roma

A pochi giorni dal parto, il racconto di una mamma alle prese con lunghe file in piedi per la visita anestesiologica, una trentina di gestanti ammassate e accaldate, e l'assurdità di dover scegliere tra la sicurezza di un ospedale e il comfort di una clinica privata

Di Tania Innamorati
16 Settembre 2020

La specie umana si sarebbe estinta in un batter di ciglia se l’emisfero femminile non si fosse fatto carico per centinaia di migliaia di anni di quaranta settimane di gestazione per volta e i dolori del parto.

Eppure per le mamme, recidive o alla prima esperienza, ogni gravidanza continua a essere un’esperienza unica e ogni parto un momento irripetibile, nel bene o nel male.

Io, appunto, non faccio eccezione. 39 settimane passate per lo più sdraiata, neanche fossi Paolina Bonaparte, in un impegnativo seppur immobile stato di cova, con gli ormoni impazziti, l’umore alla Norman Bates di Psycho e voglie alimentari che spaziavano dalla cucina coreana al Pastrami (in pieno lockdown, ovviamente) per la gioia del povero marito costretto a fare da cuoco, inserviente, infermiere, psicologo e genitore quasi unico della nostra primogenita cinquenne. Il livello di attenzione che ho preteso dal prossimo ha superato, per due terzi del 2020, quello dell’unica donna incinta sulla terra raccontata nel film I Figli Degli Uomini di Cuaron.

Nove mesi sono finalmente passati, con gran sollievo di tutti coloro che hanno avuto a che fare con me: la valigia è pronta, le analisi in ordine, il corredino lavato. Ora non resta che sfornare il marmocchio.

Ma dove?

Questa è la domanda che ogni gestante a un certo punto deve porsi, armandosi di grande senso di responsabilità. C’è chi si affida ai consigli del proprio ginecologo, chi ai racconti delle amiche (la cui frase standard è “ma che partorisci lì, sei impazzita?”), chi ai certificati di eccellenza, bollini rosa e numero di parti per struttura. Io ho dato ascolto allo stesso modo alle parole del medico, a quelle delle comari e alle informazioni rimediate su internet, e infatti alla trentanovesima settimana non ho ancora deciso.

Il primo quesito a cui rispondere in questi casi è senza dubbio: pubblico o privato? Che si traduce, nel linguaggio delle future partorienti, in: sicurezza o comfort? Sì perché a quanto pare, almeno in Italia, sono due concetti che stentano a camminare a braccetto.

Scegliere la comodità di una clinica privata potrebbe voler significare fare a meno di servizi essenziali come la terapia intensiva neonatale, così come indirizzarsi verso una struttura pubblica, anche se di secondo livello, potrebbe tradursi in inutili e infinite attese, letti insufficienti, accoglienza pessima e gentilezza zero.

E io ne so qualcosa.

La mia piccola avventura inizia un paio di settimane fa quando il ginecologo mi ha posto la fatidica domanda: “dove intende partorire?” e io ho risposto, con sua grande soddisfazione – avendo lavorato lì per quarant’anni – “al San Camillo Forlanini”.

Ma proprio in quel momento, non sapendolo, iniziava il mio travaglio. Ovviamente figurato.

Dopo una mezza giornata passata al telefono per contattare il Centro Unico Prenotazioni, sono riuscita a prenotare la visita anestesiologica per la parto-anelgesia di lì alla settimana successiva.

L’appuntamento è stato fissato fissato alle 9.05 di lunedì 7 settembre. La mia pancia vistosa mi ha consentito di entrare con la macchina all’interno della struttura, saltare la fila agli sportelli del ticket e parcheggiare all’interno. I vantaggi della gravidanza.

All’ora stabilita, mi avvio serena verso il reparto di ostetricia. Prima di entrare nel padiglione però, mi imbatto in una trentina di ragazzi tra i 25 e i 40 anni, seduti alla bene e meglio sui bordi del marciapiede, tutti con lo smartphone in mano in evidente stato di noia. Varco la soglia del padiglione pensando: cosa faranno lì?

Un ragazzetto in divisa da vigilantes, masticando vistosamente una gomma, seduto come fosse sul divano di casa e immerso in una sfida a Candy Crash accoglie le gestanti.

Risponde muovendo solo la testa, senza neanche rivolgere lo sguardo, a chiunque gli chieda informazioni sui reparti. La risposta riservata alla mia domanda “scusi, dove si fanno le visite anestesiologiche?” è stata: gesto del capo verso sinistra.

E infatti proprio a sinistra del gabbiotto, senza possibilità di errore, si trova il reparto di anestesia. Si riconosce chiaramente perché la trentina di mogli e fidanzate dei maschietti annoiati all’uscita è lì, tutte al nono mese e tutte in piedi, una vicina all’altra, appoggiate al muro o ondeggianti alla ricerca della posizione più confortevole, a sventolarsi per il gran caldo provocato dalla mancanza d’aria condizionata e i 38 gradi della capitale.

Strabuzzo gli occhi. Mi avvicino ad una delle “colleghe” e chiedo cosa succede. Lei con aria e voce rassegnata mi risponde che siamo tutte in fila per la visita anestesiologica, che lei sta aspettando in piedi da una quarantina di minuti, che ci sono solo tre o quattro sedie ma che se dovessi stancarmi posso chiedere il cambio a qualcuna. Ha concluso invitandomi a chiedere chi fosse l’ultima perchè la macchinetta che distribuiva i numeri degli appuntamenti era rotta.

La mia pressione sanguigna, tenuta a bada durante i nove mesi, credo abbia toccato i 200 di massima in una frazione di secondo. Con gli occhi iniettati di sangue mi sono avvicinata all’infermiera del triage, una matrona dalla faccia dura e i capelli biondo-tinti. “Scusi, perché siamo tutte in piedi e ammucchiate?” le ho chiesto cercando di mantenere la calma. “Perché perché signora… perché è così” mi ha risposto con tono acido senza guardarmi negli occhi. Incredula, in primis per lo scenario surreale, in secondo luogo per la risposta, mi sono girata verso le altre gestanti alla ricerca di sguardi solidali e combattivi. Una chiamata alle armi a cui non ha avuto la forza di rispondere nessuna, tutte troppo stanche dall’attesa e dal caldo. “Facciamo così – ho intimato all’infermiera – io torno domani”. “Sì, domani… guarda che domani sarà anche peggio e comunque se non ti va bene la porta è lì”.

Con le mani tremanti e tic convulsi ho fatto una foto alla scena da Terzo Mondo che mi si palesava davanti e sono partita alla volta del Primario del padiglione, sbraitando ad alta voce. La solita guardia giurata, ormai in procinto di battere il record mondiale di Candy Crash, mi ha fatto segno, rigorosamente con la testa e senza proferire parola, di andare a destra.

Devo riconoscere che il Primario, una donna, mi ha ricevuto immediatamente e ha recepito con sincero stupore la foto mostrata e l’impietosa denuncia dell’accaduto.

Trenta donne incinte al nono mese tenute in piedi, una attaccata all’altra, in piena emergenza Covid, in uno spazio ridotto con 40 gradi senza aria condizionata.

Si è precipitata nell’ala anestesiologica uscendone dieci minuti dopo. Deve aver distribuito ramanzine perchè poco dopo, miracolosamente, l’assembramento di gestanti si è ridotto e la fila per le visite più o meno sbloccata.

Ed è stato così che un’ora e 45 minuti dopo, più della metà dei quali passati in piedi, sono riuscita a fare i miei 5 minuti di visita anestesiologica al San Camillo Forlanini.

Cinque minuti in cui oltre a fare l’anamnesi, la dottoressa che mi ha visitato ha riferito: “C’è un solo anestesista in tutto il reparto, se in quel momento a partorire siete in 6, la prima che arriva si becca la parto-anelgesia” le altre, come si suol dire, si attaccano al tram. Questa affermazione mi ha raggelato, tanto che, una volta a casa, stanca morta dal nervoso, dal caldo e dall’attesa, ho iniziato a valutare altre strutture, per lo più private. Non senza aver prima denunciato l’accaduto all’URP.

L’Ufficio Relazioni con il Pubblico mi ha risposto dopo poche ore scusandosi dell’accaduto per bocca del Primario che ha garantito essersi trattato di un caso limite. Ho risposto che tanto “limite” non doveva essere dato che l’infermiera del Triage aveva affermato con sicurezza davanti a tutte che in altri giorni la situazione è ben peggiore. Da lì non ho ricevuto più alcuna risposta.

In preda al panico ho chiamato il mio ginecologo, in pensione da quel reparto dopo quasi mezzo secolo di onorata professione. Gli ho spiegato che mi sentirei sì più tranquilla a partorire in una struttura pubblica ma le premesse del San Camillo sono pessime e la mia esperienza finora a dir poco agghiacciante. “Il San Camillo è una struttura di secondo livello che pratica almeno 2000 parti l’anno – mi ha rassicurato – la parto-anelgesia è sempre garantita checché le abbia riferito l’anestesista che ha incontrato. Inoltre, per qualsiasi problema, può contare su un’ottima terapia intensiva neonatale. Un ospedale come il San Camillo ha un solo grande difetto: la pessima capacità di comunicare e interagire con i pazienti”.

Dopo quella chiacchierata telefonica, animata da nuovo spirito di responsabilità nei confronti del nascituro, ho cercato di sotterrare l’ascia di guerra e sono tornata al San Camillo per prendere le ultime informazioni e tirare le somme. Una doverosa seconda chance. A distanza di qualche giorno e dopo aver denunciato l’accaduto ai quattro venti, ho trovato ad accogliermi una dottoressa e un’ostetrica gentili e disponibili che hanno risposto a ogni domanda e mi hanno in parte tranquillizzato. Non che mi sia ricreduta del tutto, andrò infatti a partorire con parecchi timori e consapevole che probabilmente dovrò alzare la voce per far valere i miei diritti, ma la mia coscienza e il buon senso mi spingono verso la scelta di una struttura pubblica. Se non per me, per la sicurezza del futuro bimbo, che intanto, ignaro delle battaglie contro i mulini a vento della sua mamma, non sembra aver voglia di uscire.

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