Lo Stato vive, viva lo Stato

14 Marzo 2020

Niente è più forte, in un momento dominato dalla crisi del Coronavirus, del titolo del libro a cura di Domenico De Masi. Lo Stato necessario non è solo una doverosa indagine sociologica, ma un’esortazione che si fa strada dopo decenni di delegittimazione della Cosa pubblica

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Il volume, davvero rilevante per pagine e concetti, è uno studio sul lavoro dei dipendenti pubblici promosso dalla Camera di Commercio di Roma e arricchito da diversi contributi; tra gli altri: Umberto Romagnoli, Tiziano Treu, Michele Trabocchi, Angelo Maria Petroni, Renato Ruffini. Una lettura sociologica del fenomeno burocratico, una miniera di dati e una ricostruzione delle teorie del Servizio pubblico nel corso di un secolo, in particolare negli ultimi trent’anni in cui si sono forgiate le ipotesi che hanno minato la credibilità del Pubblico.

Sull’onda di una delegittimazione costante del lavoro “statale”, che risale ai tempi dell’Unità d’Italia, e sull’onda anche di una contestazione rivolta alla politica – la stagione della Casta – che però non ha risparmiato i funzionari pubblici “fannulloni”, l’attuale generazione conosce solo la versione peggiore. Dal 2010 in Italia vige il blocco del turnover, i contratti sono rinnovati con il contagocce, le procedure concorsuali restano preistoriche, l’efficienza conosce punte di eccellenza e veri e propri disastri. I numeri dicono che su 60 milioni di abitanti, l’Italia possiede poco più di tre milioni di dipendenti pubblici, il 15% degli occupati. Solo il Portogallo ne ha di meno: la Gran Bretagna è al 16%, la Francia al 22 senza contare la Svezia che arriva al 29%. Nel 2002 la Ragioneria dello Stato contava 3.250.000 dipendenti a tempo indeterminato, nel 2012 erano scesi a 3.050.000. Distribuiti in modo assurdo: per ogni 100 occupati vi erano 60 dipendenti pubblici in Lombardia e 130 in Calabria.

Il ruolo del pubblico, ci avverte il lavoro di De Masi, risente dell’egemonia culturale del pensiero economico. Dopo la svolta neoliberista di inizio anni 80 le idee sulla Pubblica amministrazione assorbono il lessico teorico e pragmatico dell’aziendalismo. Si afferma così all’inizio degli anni 90 il nuovo paradigma del New Public Management (Npm) di David Osborne e Ted Gaebler che si propone di elevare “l’efficienza del pubblico impiegando le stesse tecniche adottate dalle imprese private e fornendo i servizi in condizione di mercato”. In Italia figure come Renato Brunetta, nel centrodestra, o Pietro Ichino, nel campo democratico, hanno sguazzato attorno a queste idee.

Solo all’inizio degli anni 2000 il paradigma viene smantellato un po’ alla volta da un’altra concezione, il New Public Service di Robert e Janet Denhart entrambi insegnanti alla School of Public Affairs (Nps) dell’Arizona State University. Uno scontro interno al cuore dell’America. Secondo i sette assiomi del Nps “gli amministratori pubblici non sono imprenditori delle loro agenzie” e il “governo appartiene ai cittadini”. Lo Stato come servizio, il primato della cittadinanza, la centralità delle persone e non della produttività, il pubblico interesse come obiettivo; si afferma un paradigma che risente di anni complicati di messa in crisi dei vecchi concetti anche se nuovi modelli si affermano ancora a fatica.

Un contributo viene indicato nell’opera di Mark Harrison Moore, che offre al dibattito il concetto di “valore pubblico” (Public value) e quindi “valore che può essere aggiunto alla sfera pubblica da qualsiasi attività”. “Il funzionario, oltre a sapere cosa si deve fare” dovrebbe immaginare anche “cosa si potrebbe fare” e invece di fermarsi di fronte ai vincoli “può pensare di trasformarli in altrettante opportunità”. Creatività e intraprendenza come fosse un manager privato, cosa che spesso accade nei meandri sconosciuti del nostro servizio pubblico senza che tutto questo sia organizzato e reso funzionale.

Il libro si propone di descrivere come sarà la Pubblica amministrazione in Italia nel 2030, le variabili economiche e demografiche, i punti di forza e di debolezza, ma la sua forza è proprio quella di farci riflettere sulla Pubblica amministrazione e sullo Stato non solo come un’entità astratta e ideologizzata, ma come un organismo vivente la cui centralità è rimessa al centro del villaggio dall’emergenza planetaria.

Passata la retorica degli “eroi” e delle “eccellenze italiane”, l’augurio è che la paura che stiamo accumulando ci permetta di destrutturare il discorso pubblico e a ridare la giusta enfasi alla “cosa pubblica”. Che resta, come dimostra il Covid, il nostro bene primario.

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