La paura dell’altro, dai migranti al virus

4 Marzo 2020

Nella Turingia sfuggita d’un soffio (per ora) al governo dell’estrema destra xenofoba, le pietre dell’antica sinagoga di Erfurt raccontano di una comunità antichissima decimata dai sanguinosi pogrom del 1349, quando gli ebrei vennero considerati in mezz’Europa come gli untori della Peste Nera. Sette secoli dopo, persistono segnali preoccupanti.

In Italia abbiamo visto il capo della Lega paventare un rischio di contagio da Coronavirus per il tramite dei barconi di migranti provenienti dall’Africa, e il governatore del Veneto denunciare come origine dell’epidemia le deplorevoli abitudini igieniche e alimentari vigenti tra i cinesi. La proiezione del pericolo sull’altro titilla le latenti pulsioni xenofobe di una massa impaurita, pronta a darsi di gomito nell’assenso a chi pare avere finalmente il coraggio di propalare indicibili verità: e ha nel breve periodo un effetto più rassicurante di ogni parere di esperto. Anche quando, sommo paradosso, viene propinata a un Paese che è ormai esso stesso considerato come l’intangibile lazzaretto dell’Europa – una fama tanto facile da acquistare in un baleno quanto ardua, poi, da scrollarsi di dosso.

Ma come sempre, è in Grecia che i fenomeni si osservano meglio, nella loro nudità: il governo destrorso di Mitsotakis affronta a suon di lacrimogeni, cariche e forconi (il ministero competente si chiama “della Protezione del cittadino”) l’emergenza di migliaia di profughi che premono ai confini nordorientali del Paese, richiamati via passaparola o sms dalle autorità turche che, per compensare le gravi conseguenze logistiche e d’immagine della débâcle militare a Idlib, instradano i disperati già presenti sul loro territorio su comodi pullman Mercedes diretti a Edirne, l’antica Adrianopoli nel cuore della Tracia, a un tiro di schioppo dalla frontiera.

La reazione di Mitsotakis è severa, e fuori da ogni norma: sospensione per un mese delle domande d’asilo, introduzione de facto del reato di immigrazione clandestina (che nel codice greco non esiste), respingimenti violenti al valico di Kastaniès – tutto motivato, tra l’altro, anche con lo spettro dell’infezione, perché molti profughi non sono affatto siriani ma provengono da Iran e Afghanistan (gli iraniani sono pochi, ma adesso tornano buoni), dunque potenziali latori del Coronavirus (che in Grecia conta per ora una manciata di casi, riconducibili a comodi voli aerei di turisti tornati dall’Italia). Benzina sul fuoco di un’opinione pubblica esasperata, che, chiamata alle armi da una propaganda mediatica che grida all’invasione, si organizza da sé: pattuglie notturne di cittadini coi fucili lungo l’Ebro; baracche incendiate a Chio; marce punitive a Lesbo contro colonne di profughi illusi; gommoni ripinti a forza in mare mentre a riva squadracce fasciste picchiano reporters stranieri; il “sole della giustizia” è tramontato.

Chi inizia il gioco delle esclusioni e dei cordoni sanitari maneggia un materiale pericoloso: in nome del contagio l’Italia chiude i voli con la Cina, la Turchia chiude i voli con l’Italia, l’Europa chiude la frontiera con la Turchia (e, magari, prima o poi anche quelle con l’Italia stessa, come esige la Le Pen alleata di Salvini); e intanto la Merkel a Erfurt non può più predicare al suo popolo “ce la faremo”, l’Unione europea schiera lungo l’Ebro il suo Commissario (greco) per la European Way of Life (non più per le “Politiche migratorie”: i nomi contano), e pian piano lungo la frontiera greco-turca del fiume Ebro sembrano palesarsi ancora una volta gli spettri ancestrali della battaglia di Adrianopoli (a soli 5 km dall’odierna dogana di Kastaniès), quella in cui i Goti nel 378 d. C. sbaragliarono la resistenza dell’imperatore Valente ponendo di fatto le premesse per la fine di Roma. Barbari, pestilenze e carestie.

Ogni epidemia, come ricordava Artaud nel suo “teatro della peste”, può mettere a nudo le contraddizioni profonde di un individuo e di una società, giungendo ad avere perfino – nell’acme del contagio – un effetto catartico, a porre le premesse per una possibile guarigione: per questo forse non è utile minimizzare i segnali di disgregazione violenta, di malessere e insofferenza dell’altro che il Coronavirus, sovrapposto all’ondata migratoria, sta portando a galla, e che vieppiù rischiano di imporsi con il protrarsi (inevitabile e prevedibilmente lungo) dello stato di emergenza. C’è da sperare (dinanzi all’incubo che un’emergenza del genere possa essere un giorno gestita direttamente dai “sovranisti”) che i deboli governi occidentali, invece di “gonfiarsi sotto una nota di silenzio” (Marinetti, La Battaglia di Adrianopoli, 1914), trovino la forza di proporre ai loro cittadini un pensiero meno semplice, ma più umano (“al vento la parsimonia, quando c’è da aiutare chi soffre” recita la regola del monastero della Salvatrice del Mondo, fondato 900 anni fa dal figlio di un imperatore bizantino a Feres, a 5 km dagli odierni reticolati dell’Ebro).

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