L’analisi

La campagna elettorale in Libia a colpi di mitra

La fragile tregua - I piani delle milizie dietro gli scontri a Tripoli: conquistare i quartieri con i ministeri per condizionare le elezioni

Di Leonardo Bellodi *
6 Settembre 2018

Il nemico del mio nemico è un mio amico: un concetto universalmente valido, ma non in Libia. In questi giorni, a Tripoli, tutti paiono essere contro tutti. Tra il 24 e il 26 agosto, nella periferia Sud della città, sono cominciati scontri tra la Settima Brigata di Tarhouna, conosciuta anche con il nome “Kanya”, e il TRB, il Battaglione rivoluzionario che risponde, se così si può dire, al ministro degli Interni del governo di Unità nazionale.

Nei primi giorni di scontri, sono stati contati almeno 40 morti e centinaia di feriti, molti dei quali colpiti in modo casuale da armi pesanti usate da persone non addestrate, miliziani per mancanza di alternative.

Da quel giorno altre milizie da altre città della Libia, come Misurata e Zintan, sono intervenute a supporto dell’una o dell’altra fazione. L’aeroporto internazionale di Mitiga-Tripoli è stato chiuso, colpito da un razzo, più di 700 carcerati sono scappati dalla prigione di Ain Zara dopo che le guardie avevano abbandonato i propri posti temendo un attacco della Settima brigata. Sono poi aumentati a dismisura i check point sulla strada costiera che da Tripoli va verso Est e Ovest, di fatto impedendo anche le comunicazioni via terra. Un cessate il fuoco, sotto l’egida della missione delle Nazioni Unite in Libia, Unsmil, è stato annunciato dalle parti il 4 settembre e pare essere rispettato, anche se qualche scontro in città si registra ancora.

Le elezioni in Libia sono programmate per dicembre, possono anche slittare, ma sono l’unico modo per superare l’impasse politico-istituzionale che da anni non permette alla Libia di trovare un equilibrio e avviare riforme sociali ed economiche. Le iniziative internazionali di supporto esterne finiscono per alimentare il risentimento popolare nei confronti dello “straniero” se non si parte dal popolo e dalle istituzioni libiche.

Ora, la maggior parte della popolazione libica vive a Tripoli o ha una propria base nella città la quale a sua volta è divisa in aree caratterizzate da una o l’altra kabila. Chi controlla Tripoli avrà grande voce in capitolo nelle prossime elezioni, nessuno vuole perdere terreno e tutti difendono le posizioni acquisite.

Come ha detto un comandante del Battaglione Nawasi, se una milizia controlla un’area, controlla anche i ministeri e le altre istituzioni lì presenti. Questa potrebbe essere una spiegazione di quanto sta succedendo ora.

Ma il fatto che la Libia non trovi pace ha una lontana origine. Nel 2010, un anno prima del 17 febbraio 2011, inizio della primavera libica, il Rapporto delle Nazioni Unite sullo Sviluppo umano indicava la Libia come il 53esimo Paese più avanzato del mondo e il più avanzato di tutto il continente africano. Come è possibile che questo vantaggio sia evaporato, a differenza di quanto è successo in Tunisia o in Egitto?

La Libia non è mai stata una nazione, cioè una comunità di persone che condividono lingua, storia, cultura ed etnia. Muhammar Gheddafi, nei suoi 42 anni di regno, ha tenuto insieme lo Stato Libia soffocando ogni tentativo di rivolta e distribuendo soldi e benefit per allentare le tensioni sociali. I maggiori beneficiari delle attenzioni di Gheddafi erano ovviamente quei gruppi che lo sostenevano. Istituzioni, pubblica amministrazione, sistema politico sono stati invece demoliti.

Sotto Gheddafi poi, la sicurezza dello Stato era garantita da una rete di intelligence e security che aveva due obiettivi: garantire il regime e prevenire il crimine. Gheddafi deliberatamente ha indebolito l’esercito nel timore che organizzasse un colpo di Stato. Ha rafforzato invece milizie che avevano a lui giurato fedeltà: Qadhadhah, Maqariha, e Warfalla. A capo dei reparti militari ha messo suoi fedelissimi provenienti da queste tribù. Alla caduta di Gheddafi questo assetto è crollato e l’esercito non è stato in grado di giocare quel ruolo di mediazione e stabilizzazione che invece ha avuto in Egitto e Tunisia.

E così milizie male addestrate ma ben armate si fronteggiano da anni in Libia e agiscono al contempo come forza di sicurezza dello Stato, agenzia di intelligence, contractor a protezione di società private o singoli individui.

Per estendere la propria area di influenza hanno bisogno di armi e altri costosi equipaggiamenti militari, per finanziarsi si danno al racket e ai rapimenti. Nell’ottobre del 2017, alcuni comandanti di un battaglione avrebbero addirittura rapito un alto funzionario del ministero dei Trasporti liberandolo solo dopo che questi aveva firmato un contratto di 80 milioni di dollari per la costruzione dell’aeroporto di Tripoli a favore di un noto uomo d’affari di Misurata.

Il generale Khalifa Haftar, che controlla la Cirenaica, non è certo la causa scatenante di ciò che sta succedendo a Tripoli ma potrebbe trarne vantaggio se alcune forze che si sentono isolate e perdenti lo chiamassero in aiuto.

Solo le elezioni possono contribuire alla costruzione di un equilibrio che è necessario per garantire la stabilità della Libia. In gioco ci sono temi fondamentali legati all’immigrazione, alla lotta contro i trafficanti di esseri umani, di armi e di droga che oggi vedono la Libia come un hub sempre più sicuro e redditizio per i loro affari. Senza dimenticare il terrorismo internazionale.

Il 22 agosto scorso, dopo un anno di silenzio, è stato divulgato un messaggio audio di Abu Bakr al-Baghdadi che esortava i propri seguaci in Siria, Iraq e Libia a vendicare i raid aerei internazionali contro l’Isis. Il giorno dopo, forse una coincidenza, nelle prime ore del mattino sette uomini della polizia sono stati uccisi e molti altri feriti in un agguato a ovest di Zliten, città costiera libica.

 

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