Clima, l’affare della finanza: dietro il greenwashing un fiume di miliardi per gas e petrolio

Gli stati hanno delegato al mercato la transizione verso un'economia senza combustibili fossili. Ma dietro al paravento della sostenibilità, le banche affermano il principio secondo cui “chi paga può inquinare”, grazie ai crediti di carbonio. Con i derivati, c’è chi guadagna sulle devastazioni ambientali

Alzi la mano chi riesce a trovare una banca o un gestore finanziario che non dichiari in ogni suo sito web, documento o informativa al pubblico la propria sostenibilità. Eppure, nonostante il sistema finanziario abbia conosciuto un proliferare di iniziative per il clima e di impegni per le zero emissioni, ogni anno quel sistema continua […]

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Alzi la mano chi riesce a trovare una banca o un gestore finanziario che non dichiari in ogni suo sito web, documento o informativa al pubblico la propria sostenibilità. Eppure, nonostante il sistema finanziario abbia conosciuto un proliferare di iniziative per il clima e di impegni per le zero emissioni, ogni anno quel sistema continua a sostenere con centinaia di miliardi di dollari l’industria dei combustibili fossili – ben 5.500 negli ultimi sette anni provenienti da 60 gruppi bancari del pianeta – mentre le emissioni non scendono.

È per spiegare questa contraddizione che Andrea Baranes, ricercatore indipendente presso Fondazione Finanza Etica, ha scritto il libro O la borsa o la vita. Banche e finanza internazionale: i peggiori nemici del clima (Ponte alle Grazie editore). Un’inchiesta che di fatto finisce per certificare il fallimento della finanziarizzazione dell’economia, imputandola “ad una gigantesca operazione di greenwashing, che ha svuotato di senso le espressioni “emissioni zero” e “net zero”, imponendo meccanismi di mercato come strumento di soluzione ai problemi climatici e rendendo il clima una variabile da considerare unicamente per i suoi impatti sulla finanza stessa.

Se il profitto resta l’unico obiettivo

Proprio le banche, in particolare, si caratterizzano per particolare opacità rispetto ai temi ambientali. Chi decidesse ad esempio di acquistare un fondo green o sostenibile probabilmente di aspetterebbe come prima condizione che questo non investa nelle maggiori imprese del settore petrolifero o nella filiera del carbone. In realtà non è così, tanto che nonostante l’esplosione di questo tipo di fondi “le principali società del settore estrattivo non lamentano una penuria di accesso al mercato dei capitali”.

La finanziarizzazione del clima ha un inizio che si chiama Protocollo di Kyoto (1997), che ha dato vita al mercato dei crediti carbonio e al cosiddetto “Emission Trading”. “Intendiamoci, il Protocollo è importantissimo, perché per la prima volta c’è un accordo”, spiega Baranes, “ma è da lì che parte l’idea per cui chi inquina di più può comprare quote da chi inquina di meno. Ma di fatto le compensazioni si sono rivelate un alibi per non andare avanti con la regolamentazone”.

A mettere un freno ad un mercato con criteri vaghi l’Unione Europea ci aveva provato, dando vita, nel 2018, all’Action Plan per la finanza sostenibile, che introduceva una tassonomia delle attività sostenibili e determinati standard per le obbligazioni verdi. Purtroppo, spiega l’autore, “la proposta di finanza sostenibile della Ue non rimette in discussione la massimizzazione del profitto come unico obiettivo dell’attività finanziaria: la sostenibilità è nel migliore dei casi un obiettivo secondario”. C’è poi un secondo problema: “L’approccio alla finanza sostenibile si concentra quasi unicamente sullo specifico prodotto finanziario, non sull’insieme delle attività proposte da un gruppo bancario”. A dare un ulteriore colpo alla possibilità di una finanza sostenibile targata Ue è stato poi il fatto che gas e nucleare siano stati inseriti nella tassonomia delle fonti pulite, svuotando di fatto il senso del termine sostenibilità.

Il paradosso del “net zero”

L’altro fenomeno su cui il libro punta il dito è sulla vera e propria esplosione di alleanze legate al “net-zero”. Un’espressione dietro cui si nasconde una pluralità di metodologie e interpretazioni, vere e proprie scappatoie che rischiano di svuotare di senso l’idea iniziale. In questo momento “tutte le banche hanno aderito a qualche alleanza verso le emissioni zero, perché c’è il grande obiettivo di essere neutrali al 2050, ma è facile trovarsi di fronte a trucchi contabili, banche che ancora oggi dicono che vanno verso il net zero ma guardano solo alle emissioni interne dell’azienda, e non al finanziamento di progetti fossili; oppure spostano tutti gli impegni al 2045 e continuano a comportarsi ugualmente”. E infatti può sembrare un paradosso, ma da quando hanno aderito alla Net Zero Banking Alliance, 56 tra le più grandi banche hanno assicurato 270 miliardi di dollari a 102 imprese del settore dei combustibili fossili, mentre 58 tra i principali membri della Net Zero Asset Manager Initiative detengono 847 miliardi di dollari in azioni e obbligazioni delle 201 più grandi imprese fossili.

Il fallimento del mercato dei crediti

E poi, ovviamente, c’è il fallimento dei mercato dei crediti, nato, appunto, dal Protocollo di Kyoto e che, afferma Baranes, semplicemente “non funziona o funziona molto male”, tanto che i progetti hanno talvolta persino effetti devastanti sulle comunità locali e spesso persino sull’ambiente, mentre il contributo alla riduzione delle emissioni è inesistente. “Inchieste giornalistiche importanti hanno messo in luce che spesso di tratta di vere e proprie truffe, progetti senza valore, con impatti enormi, contadini espulsi perché sulle loro terre si sono piantati milioni di eucalipti, con danni alla biodiversità”, nota Baranes. In compenso, con il mercato dei crediti si è passati dal principio che “chi inquina paga” a quello per cui “chi paga può inquinare”. Ultima questione che dimostra il fallimento di una finanziarizzazione del clima è il tema dei derivati, che più che assicurazioni sono diventati vere e proprie scommesse, anche su fenomeni climatici, tanto che c’è chi guadagna sulle devastazioni ambientali.

Perché bisogna cambiare narrativa

Ma allora, come siamo arrivati fino qui? Perché la finanza sembra aver preso in ostaggio l’intero processo, imponendo meccanismi di mercato come principali strumento di contrasto alla crisi climatica (meccanismi alternativi a una seria regolamentazione), e affermandosi come perno attorno a cui devono ruotare le politiche? Il libro indica come cambiare rotta, ad esempio ragionando su interventi per dirigere l’l’erogazione del credito verso progetti con impatti positivi sul clima e rendendo prodotti inquinanti meno remunerativi. ““Il percorso europeo sulla finanza sostenibile avrebbe dovuto elencare poche cose che non si possono assolutamente fare, mentre invece si continuano ad allargare le maglie”, spiega il ricercatore. Ma a monte ci deve essere una revisione generale “dell’impianto culturale su cui si è sviluppata la narrativa attuale e l’attuale approccio della finanza al clima”.
Insomma, se tutti – o quasi – sono d’accordo sull’urgenza di agire, non si discute di come uscire dalle fossili, ma al contrario di come continuare a estrarle e bruciarle mascherando il tutto dietro la parola “sostenibilità”, tra mercato delle emissioni e tecnologie che nel migliore dei casi danno un contributo marginale, come la cattura del carbonio emesso. “Ancora peggio”, conclude il ricercatore, “oggi non si guarda più agli enormi impatti che la finanza ha sul clima, ma ci si interessa al clima solo se, e fino a che, sono a rischio i profitti. La finanza è il faro delle decisioni politiche, l’impegno sul clima una variabile su cui giocare”.