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La sera tra martedì e mercoledì la mia famiglia non mi ha permesso di andarmene di casa. “Troppo pericoloso”. Ieri mattina esco e prendo il bus, per vedere con i miei occhi cosa rimane dell’ospedale Al-Ahli, più o meno a dieci minuti di auto da Al-Mughraqa, sobborgo a sud di Gaza City dove c’è la casa dei miei.
Quando arrivo ancora stanno cercando morti tra le macerie. C’erano anche sfollati dal nord della Striscia, che credevano l’ospedale fosse un posto sicuro. Alcuni di loro sono stati uccisi, hanno perso un membro della famiglia o sono stati sfollati in altri luoghi dopo essere sopravvissuti ancora una volta. Miracolosamente, le scene che vedo non si limitano alle macerie e all’odore di sangue ed esplosivo: ci sono anche i vivi, chi ancora raccoglie i morti, chi prova ad aiutare i sopravvissuti e chi scatta delle fotografie o fa delle riprese. Per un attimo chiudo gli occhi e immagino i malati nelle corsie e gli sfollati che trascorrevano la giornata nel cortile di questo ospedale, dormendo per terra con pochissime cose a disposizione: la vita, l’acqua, il cibo e i vestiti. Bambini e donne venuti a rifugiarsi qui. Sono andata a vedere cosa fosse successo alla chiesa episcopale anglicana, fondata insieme con l’ospedale nel 1904 da parte della Church Mission Society della Chiesa d’Inghilterra. Tutto distrutto. Niente di niente a ricordare un passato tanto importante. Allora mi chiedo: in che modo l’occupazione israeliana viola questa eredità storica che fu stabilita prima che Israele occupasse la Palestina? Le leggi internazionali non vietano di prendere di mira qualsiasi patrimonio storico religioso durante i conflitti armati? Io ho una laurea in Diritto internazionale. Ma non ho più le risposte. La cosa che fa più male, comunque, è pensare alle persone che sono state uccise qui mentre pensavano di essere in uno dei pochi luoghi sicuri di tutta la Striscia. Fa male pensare a chi ha perso figli, genitori, parenti o una persona cara. Quale operazione ostile poteva essere mai organizzata qui dentro? Perché colpire un ospedale?
Vado via, verso un altro ospedale: l’Al-Shifa, che ospita i feriti del bombardamento all’Al-Ahli. Non so dire quante persone vedo ammassate nel cortile… I corridoi della struttura sono colmi di gente riversa a terra. Vedo sangue, lacrime e mancanza di risorse, attrezzature mediche e strumenti di primo soccorso. Mi raccontano che dalla sera prima, a causa del pazzesco afflusso di pazienti in arrivo, vengono eseguite anche operazioni chirurgiche senza anestesia. Non abbiamo mai vissuto, qui a Gaza, in una situazione che voi direste normale, ma scene così non le ho mai viste prima d’ora. Non si può escludere, mi spiegano i medici, la diffusione di alcune malattie ed epidemie a causa della mancanza di risorse sanitarie.
Durante questo massacro, ho perso il mio amico Muhammad Sami, sfollato con la sua famiglia all’Al-Ahli, dove si impegnava anche in attività ricreative per i bambini ricoverati, per alleviare la pressione psicologica sui piccoli. Era regista e attore: ricordo il film che ha girato dopo l’aggressione alla Striscia del 2021, in cui racconta l’importanza della radio nella vita dei gazawi durante il periodo di guerra, perché è l’unico mezzo per conoscere le notizie quando l’esercito di Israele taglia l’elettricità e Internet. Nella stessa notte ho perso anche il mio amico Abdul Rahman al-Tanani, ucciso in un attacco che ha colpito la casa di suo zio, dove si era rifugiato con la famiglia. Possano le loro anime riposare in pace. Le domande si affastellano nella mia testa: “Com’è possibile che 500 persone vengano uccise in un unico luogo e nello stesso momento? A che ora e dove accade questo?”. Sono tornata a Al-Mughraqa, anche qui molti attacchi nelle ultime ore. Non so se continuerò a scrivere questo diario nei prossimi giorni, forse lascerò casa. L’esercito israeliano sta inviando messaggi di evacuazione ai villaggi vicini, quindi toccherà presto anche a noi, sono pronta a dire “addio”.